Ci sono musicisti che nel turbinare degli eventi, compaiono qua e là come presenze silenziose e intermittenti, adocchiati una volta e poi confinati nel silenzio del ricordo sporadico. Eppure la trama stessa degli eventi, il gioco labirintico di interdipendenze e relazioni che, assieme, costruiscono l’ordito di quella che chiamiamo «storia» – dunque anche la storia delle musiche – senza quelle presenze non avrebbe avuto gran parte del senso. Una di queste figure di «musicista per i musicisti», per tradurre un’espressione molto usata nel mondo anglosassone per riferirsi a qualcuno che ha tutto il valore necessario, ma pochissima fortuna mediatica, è stato il trombettista Richard Allen Mitchell, detto «Blue» sin dai tempi del liceo in Florida. Scomparso a Los Angeles il 21 maggio 1979, quarant’anni fa, a quarantanove anni. Blue Mitchell è stato un trombettista di grande valore, e non solo nel jazz: molti suoi percorsi sonori hanno incrociato le piste di note che col jazz hanno spesso a che fare tangenzialmente. Ad esempio il blues. Ma, com’è stato scritto in occasione della riedizione completa delle session registrate per la Blue Note tra il ’63 e il ’67, la sua sfortuna è stata quella di essere «un grande solista, in un momento in cui nel jazz si ergevano ovunque giganti del suono».
APPRENDISTATO
Mitchell era nato nel 1930, lo stesso anno in cui videro la luce il rivoluzionario e gentile Ornette Coleman, e il «saxophone colossus» Sonny Rollins. Il suo apprendistato, dunque, lo vede ascoltare con interesse e stupore l’incandescente materia bebop che trionfava come musica d’avanguardia e di sfida alle convenzioni danzerecce sia della «swing era», sia del rhythm and blues: rimane assai colpito ad esempio da Shaw’ Nuff, mascheramento dello schema armonico di I Got Rhythm, incisa in origine da Dizzy Gillespie nel ’45, quando il mondo strava per scrollarsi di dosso il gran carnaio della seconda guerra mondiale. Bird e Dizzy sono i suoi eroi, ma il segreto in nuce del suo suono pastoso e immediatamente riconoscibile per la caratura lirica è nell’attrazione che Blue Mitchell prova per lo sconosciuto Dick Smothers, un trombettista di Miami che andava spesso a sentire. A diciotto anni però Mitchell, come molti altri jazzisti, Coltrane, Coleman e Ayler compresi, per lavorare suona soprattutto il rhythm and blues, perché quelle note fragorose e incatenanti vendono bene, e fanno ballare la gente afroamericana: suona con Earl Bostic, con Paul Williams, con Chick Willis. Il colpo di fortuna arriva sempre nell’anno della maggiore età: conosce Cannonball Adderley, centoventi chilogrammi di energia spumeggiante dal suo contralto parkeriano, lo adocchia Orrin Keepnews, produttore di gran fiuto della Riverside Records, che se lo porta a New York, il posto dove succedono le cose. Lì Blue Mitchell incide Big 6 con trombonista Curtis Filler, il batterista Philly Joe Jones, il sassofonista Jimmy Griffin, e dà una mano ad Adderley per il suo Portrait of Cannoball, il disco dove si ascolta per la prima volta quello che diventerà un inno per Art Blakey, la propulsiva e marziale Blues March scritta da Benny Golson.
ACROBAZIE BEBOP
Blue suona lirico e filante, è un degno discepolo del gigante Clifford Brown prematuramente scomparso (così come lo sono Donald Byrd e Lee Morgan, assai più celebrati), l’uomo che ha gettato un ponte tra il virtuosismo acrobatico bebop, e la «soulfulness» dei trombettisti che praticano il rhythm and blues. Non tutto fila per il verso giusto, però. In sala di registrazione ad ascoltare la prima session c’è Miles Davis, e Blue Mitchell si innervosisce così tanto per la presenza del carismatico rivale che dovrà ripetere le sue parti il giorno dopo. Il ’58 è davvero un anno rivelazione per Blue Mitchell: c’è un’altra chiamata importante, quella di Horace Silver. Il pianista da un paio d’anni ha diviso la sua strada da quella dei Jazz Messengers di Blakey che ha contribuito a fondare, affinando il suo stile percussivo e scoppiettante, dal formidabile dinamismo, e saldamente ancorato al blues. Blue Mitchell trova casa sicura nel gruppo di Silver: ben cinque anni di attività, in cui alterna i suoi assoli lirici e spesso un po’ struggenti a quelli del sassofonista Herman «Junior» Cook, un altro ragazzo della Florida cresciuto come lui con il mito di Bird e di Dizzy, e come lui assai più morbido degli spigolosi bopper. Nel 1960 arriva Smooth as the Wind, un disco per tromba e archi come era diventata prassi incidere per tutti i jazzisti a caccia di legittimazione presso il grande pubblico anche bianco: arrangia Benny Golson, pura scuola Jazz Messengers, ma Mitchell alla fine è spossato e insoddisfatto, il contrario della felice esperienza del ’62 in studio per The Cup Bearers con tutta la line up ricavata dal gruppo di Silver.
Nel ’63 il primo approccio con gli studi di registrazioni e della leggendaria Blue Note di Alfred Lion, session uscite molti anni dopo, nel’ 64 il suo primo vero disco per l’etichetta della nota blu, The Thing to Do, cui farà seguito Down with It!, registrazioni del ’65: Blue Mitchell ha adocchiato un giovane pianista destinato a una brillante carriera, Chick Corea, e gli lascia molto spazio.
RITMI LATINI
La formula, di qui in avanti, è quella dello hard bop comunicativo, ben suonato, e in rotta di avvicinamento alle pulsazioni della black music più commerciale. Spunta il soul jazz, insomma, dove conta anche inserire, oltre a richiami al blues e al gospel anche qualche riferimento al lussureggiante mondo ritmico latinoamericano già approcciato dai primi bopper, evidenziato da Horace Silver, e qui dilatato temporalmente in vere e proprie eleganti maratone. Con l’aiuto di un arrangiatore scafato ed efficace (e sottovalutato come Blue Mitchell) come Duke Pearson.
Nei tardi anni Sessanta Blue Mitchell sposa appieno il vento «soul» e la rinnovata «negritudine» che spira sul jazz: lo fa in studi e sui palchi con il sassofonista Lou Donaldson, e con il chitarrista George Benson. Ad esempio nello splendido Midnight Creeper, del ’68, in Collision in Black, del ’68, in Bantu Village, del ’69. Poi, trasferitosi a Los Angeles inizia il suo periodo da freelance, la sua tromba lirica al servizio di chi lo cerca ed è in sintonia con il suo mondo garbato, ma profondamente radicato nella cultura afroamericana: a partire dalla band che segue Ray Charles, tra il ’69 e il ’71.
Sempre nel segno del blues, Blue Mitchell è poi con uno dei re del blues revival inglese, John Mayall, con Big Joe Turner, con Mike Bloomfield, con Papa John Creach, il violinista nero che sarà anche con i Jefferson Airplane. Il jazz torna nel segno del canto: accompagna Lena Horne e Tony Bennett, pezzi da novanta della vocalità afroamericana, ma anche Ray Brown e Louie Bellson. I suoi ultimi exploit in un certo senso chiudono un cerchio, il percorso del ragazzo della Florida che amava suonare le ballad e il jazz speziato di blues e di energia: dopo qualche scivolone commerciale in un funk di maniera, tra il ’75 e il ’78 è alla guida di un gruppo poderosamente hard bop con Harold Land, un sassofonista che ha nel suono il ricordo di John Coltrane. Allo scorcio del ’78, in ottobre, Blue Mitchell si ammala. il 21 maggio tace la tromba gentile che sapeva cavalcare anche le onde grosse ed emotive del soul jazz.