Come definire un musicista che fa un disco che sfugge ad ogni possibile definizione; una musica dove i generi sono talmente mescolati e stravolti da essere indistinguibili? Elettronica (molta), fiati, archi, percussioni, voci. E poi cultura hip hop, pulsante attualità di tensioni e sentimenti. Anche il jazz, se questa parola si può pronunciare senza che si levino sopracciglia e anatemi dei soliti custodi di una ortodossia morente. Il polistrumentista (cornetta, synth, percussioni, voce) Ben LaMar Gay ha trovato nella visionaria etichetta discografica International Anthem il clima ideale per fare fermentare le sue idee e, dopo il sorprendente esordio di Downtown Castles Can Never Block the Sun del 2018, pubblica questo strano oggetto che è Open Arms To Open Us.

NATO A CHICAGO nel 1984, ha cominciato a suonare la tromba per passare poi alla cornetta a tredici anni. Ha aderito alla Aacm, l’associazione che ha riscritto la Storia del jazz tra i Sessanta e i Settanta, e qui ha avuto il sostegno e l’incoraggiamento di maestri come il sassofonista Roscoe Mitchell e il trombonista George Lewis. Dopo essere vissuto per tre anni in Brasile, «dove c’è la vita vera fuori dalla bolla degli Usa», ha cominciato a farsi notare nel giro del più avanzato nuovo jazz. In questo disco il Brasile, quello meticcio e tecno-tribale dei Sao Paulo Underground per intenderci, è presente quasi ovunque qua e là ed è oro puro di ritmi. Come una pallina da flipper impazzita la musica rimbalza continuamente tra blues, gospel, funk, soul, elettronica e robotica. Non un gioco eclettico ma un impasto di luce e tenebre, gioia e angoscia. C’è anche Sun Ra che occhieggia in queste sedici tracce brevi e brevissime, inventario delle musiche possibili di oggi e di domani.