I due Foscari (1844) di Giuseppe Verdi tornano al Teatro alla Scala dopo 7 anni di assenza. Dal 25 febbraio al 25 marzo l’opera viene proposta con regia e scene di Alvis Hermanis, che ha già debuttato a Milano un anno fa con Die Soldaten di Bernd Alois Zimmermann. Nel 2009 il pubblico si trovò di fronte a un impianto scenico tutto interni, con enormi finestre a grate che alludevano alla prigionia dei due Foscari e ai fatidici «anni di galera» di Verdi: gli esterni veneziani erano stati completamente obliterati.

L’allestimento di Hermanis, invece, è tutto proiettato fuori, in uno spazio cittadino mitizzato e osservato/ricordato attraverso la grande tradizione pittorica veneziana: su un impianto di fondali neutri sovrapposti che si aprono orizzontalmente e verticalmente imitando un arcaico obiettivo fotografico, vengono proiettate immagini ispirate più o meno fedelmente, oltre che alle stoffe damascate veneziane, a Gentile e Giovanni Bellini (Il miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo, La predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto), a Carpaccio (Storie di Sant’Orsola, San Giorgio e San Trifone), a Tintoretto (Cristo morto adorato dai Dogi), ma anche a Francesco Hayez (L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia prima di partire per l’esilio cui era stato condannato, esposto alle Gallerie d’Italia prospicienti la Scala).

Con tutto l’esotismo manierato che può colonizzare lo sguardo di un lettone, viene ritratta la Venezia che di lì a mezzo secolo (la vicenda si volge nel 1457), quando verrà raggiunto il Nuovo Mondo, decadrà dalla sua gloria di «città mondo»: la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa aprono nuove incredibili rotte e deprivano la repubblica del ruolo di regina dei mercati. Il «declino personale del doge Foscari – dichiara Hermanis – è una metafora del declino di Venezia, che nel XV secolo era il centro del mondo». Ad accomunare l’allestimento odierno a quello del 2009 c’è una regia similmente convenzionale, statica, con ingressi in scena precipitosi, gestualità da manichini, corpo-a-corpo inverosimili, acmi drammatiche in cui gli attori non hanno altro modo di esprimere la veemenza delle loro passioni che buttarsi a terra.

Allora come ora popolano la scena presenze che dovrebbero essere inquietanti e misteriose, larve del regime dispotico e inquisitorio dei Dieci, immancabilmente accompagnate dalle maschere globalizzate del carnevale veneziano, imbarazzanti nella loro stereotipia, al presente «animate» dalle coreografie di Alla Sigalova, che lasciano senza parole tanto sono idiotamente fuori contesto. Certo l’opera, a detta dello stesso Verdi, complice lo stolido libretto di Francesco Maria Piave, risulta compromessa con la noia: «nei soggetti naturalmente tristi, se non si è ben cauti si finisce per fare un mortorio, come, per modo d’esempio, I due Foscari, che hanno una tinta, un color troppo uniforme dal principio alla fine».

Numeri modulari e chiusi (impera il pattern donizettiano coro-cantabile-tempo di mezzo-cabaletta), temi musicali che tornano immutabili, come i personaggi che contrassegnano, dall’inizio alla fine. Il giovane Michele Mariotti dirige cercando di salvare l’opera dalla noia: punta tutto sulla tensione, ottenuta staccando tempi sempre vivaci e talvolta eccessivamente concitati; il controllo dei concertati del finale secondo e del terzo risulta a tratti minato dall’enfasi, che fa andare fuori controllo l’armonia delle voci.

Quella di Francesco Meli è generosa, sfogata, a tratti torrenziale, rotonda: il volume riempie doverosamente il teatro, a meno di qualche piccola increspatura negli acuti, altrimenti sempre a fuoco, e a discapito delle mezze voci, usate molto poco. Quella di Anna Pirozzi è potente in acuto ma stimbrata e sgraziata (immancabili i fischi del loggione).

Che dire di quella tardo-baritonale di Placido Domingo, il vecchio leone che riempie il teatro, calamita i media (Classica HD ha trasmesso in diretta la prima) e gli sponsor (Rolex)? Ancora voluminosa, non più musicale come un tempo (l’ex tenore si rifugia spesso nello stile parlante), con sgraziature veriste, ma ancora assai drammatica (il pubblico, a torto o a ragione, plaude in abbondanza).