Quale perversa ironia della storia è oggi all’opera perché Venezia muoia! Tutto ciò che nella sua storia è stato primato, la supremazia nei commerci, la genialità delle sue edificazioni, la sua bellezza senza uguali, la minacciano ormai apertamente di estinzione. E il colmo dell’ironia è racchiuso nel fatto che, a differenza di pressoché tutte le altre città del mondo, Venezia, sin da quando esiste, è stata dominata da un costante, quotidiano, imperativo: salvarsi. Venezia ha convissuto per secoli con la minaccia della sua distruzione.

Chi la minacciava? Le tempeste periodiche dell’Adriatico che di tanto in tanto la colpivano. Ma il pericolo maggiore veniva essenzialmente dalla stesse potenti forze che l’avevano fatta nascere. La città è un’isola – o meglio un insieme di isolotti poi collegati dai tanti ponti oggi calcati da torme di turisti – all’interno di una vasta laguna di circa 550 chilometri quadrati. Un mare interno che per secoli è stato porto naturale, luogo di pesca, via di transito e di mobilità urbana. Tanto gli isolotti che la laguna sono l’opera millenaria del trasporto dei dei torrenti e dei fiumi (Brenta, Piave, Sile…) che depositavano i loro materiali nell’Adriatico e tendevano a recingere il mare con un cordone di terra. Le isole su cui sorge Venezia son fatte del fango e della sabbia trasportate da quei fiumi, e la laguna è chiusa verso l’Adriatico – salvo l’apertura delle sue «bocche di porto» – dagli stessi materiali. Ma esattamente questa tendenza all’interramento continuo costituiva il più grande pericolo: perché con l’avanzare del fango e dell’acqua dolce in laguna, si estendevano i canneti, il mare tendeva a trasformarsi in palude, e la malaria, con la diffusione delle febbri, avrebbe spinto i cittadini ad abbandonare la città.

Per secoli, la Repubblica di Venezia ha combattuto contro questa minaccia, deviando i fiumi dalla Laguna, scavando tutti i giorni il fango dai rii e dai canali, costituendo magistrature, come il Magistrato alle acque (1501) che vigilavano costantemente sulle dinamiche della acque interne. Ed essa è uscita vittoriosa da questa sfida, insegnando a noi contemporanei come si devono fronteggiare le avversità ambientali. Da quando non è stata più la potente repubblica che dominava il Mediterraneo con i suoi commerci, e soprattutto da quando è diventata una semplice città dell’Italia, Venezia ha convissuto con un’altra minaccia: l’acqua alta e lo sprofondamento. Ma oggi la insidia un’altra morte e anche in questo Venezia sembra l’avanguardia funesta di un destino che può colpire tutte le città storiche: le viene inferta dal cosiddetto mercato, osannato come suprema divinità del nostro tempo.

Come ci ricorda ora in un appassionato saggio Salvatore Settis (Se Venezia muore, Einaudi, pp.160, euro 11). «Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null’altro sembra più capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie e immobiliari, vendere prodotti ’tipici’ (dai vetri alle maschere) allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un’aria di perpetua festa paesana».

Che cosa è accaduto? La monocultura di cui parla Settis ha trasformato una città viva, con il suo artigiano e piccole industrie, con il suo Arsenale, le piccole botteghe, i servizi , i mestieri (pescatori, falegnami, idraulici, sarti, calzolai) i cittadini con la propria lingua e memoria in uno spazio artificiale, in una quinta teatrale. Le case di Venezia sono state acquistate da turisti facoltosi che vi trascorrono qualche settimana all’anno – lasciando d’inverno interi quartieri al buio e al deserto – e facendo lievitare i prezzi sia delle abitazioni che di tutti gli altri beni.

Il popolo di Venezia non può reggere quei costi e va a vivere nella vicina Mestre, mentre chi rimane ha sempre meno negozi dove fare la spesa, meno idraulici da chiamare in caso di necessità, meno servizi indispensabili alla vita quotidiana. Le tendenze spontanee del mercato – meglio, i meccanismi di un capitalismo incontrastato – cacciano i cittadini dalla città come un tempo minacciavano di fare le febbri malariche. Così oggi, Venezia, per secoli una delle più popolose città d’Italia, è al minimo della sua storia, con poco più di 56000 abitanti. Ricorda Settis che c’è un solo precedente di un tale tracollo demografico, «e fu la peste del 1630».

La lenta morte verso cui si avvia Venezia è stata più volte denunciata. E corre qui l’obbligo di ricordare almeno un importante testo, uscito da un piccolo editore, Corte del Fondego, Venezia è una città (2009), di Franco Mancuso, con la prefazione di Francesco Erbani. Fondamentale per capire come è stata costruita Venezia, ma anche per le analisi circostanziate sui vuoti che si stanno creando, in città e nelle altre isole, e sulle possibilità di nuove forme di utilizzo e di vivificazione umana e culturale dei suoi spazi. Una nuova vita può rifiorire a Venezia, se la politica torna ad essere progetto sociale, urbanesimo: vale a dire abitazione degli spazi secondo le direttive di bisogni collettivi.

Il saggio di Settis ha il merito di non fermarsi all’analisi del gioiello lagunare.Venezia è un laboratorio che ci mostra quel che sta accadendo ai nostri centri urbani e quale destino li attende se non verranno governati da una cultura coerente con la loro storia: quella storia che in Italia ha visto fiorire – esempio senza pari in Europa e nel mondo – le nostre «cento città». E pagine intense Settis scrive sul senso profondo delle nostre creazioni urbane. Esse, ricorda, non sono solo le mura, gli edifici, le piazze, le strade, ma hanno anche un’anima. E l’anima non è solo i «suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principi, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro». Riprendendo una metafora di Italo Calvino Settis parla di una «città invisibile», che vive e anima quella visibile delle pietre.

Ma Venezia è anche un significativo pretesto per denunciare una tendenza che imperversa nel resto d’Italia e del mondo. Non si tratta solo di prendere atto che «la città degli uomini, o ’a misura d’uomo’ ha ceduto il passo a una macchina produttiva di merci e di consumi». Occorre cogliere e combattere la modernità fasulla che avanza, quella tendenza dispiegata che potremmo chiamare la separazione tra architettura e urbanistica, il distacco esibizionistico della singola costruzione, che non ubbidisce ai bisogni, anche estetici di una comunità – come è avvenuto per secoli nelle nostre città – ma è frutto di una invenzione affaristica. Una china culturale incarnata nella corsa ai grattacieli, anche quando nessun incremento di popolazione o altra necessità li reclama. «La retorica delle altezze, che trapianta nell’architettura e nella città la competitività dei mercati finanziari».

Merito di questo pamphlet di Settis è infine di aver chiarito che cosa deve significare conservazione e tutela. Questa è tutt’altro che imbalsamazione del passato, come vorrebbero far credere tanti progressisti fautori del «nuovo», purché sia nuovo. «Il paradosso della conservazione – ricorda – è che nulla si conserva mai né si tramanda se resta immobile e stagnante. Anche la tradizione è un continuo rinnovarsi … la memoria storica delle nostre città non richiede la stasi, esige il movimento. Non predica l’imbalsamazione, esalta la vita». La tutela si fa nel flusso della storia che avanza e perciò necessita di cultura, equilibrio, creatività, progetto che interpreti i bisogni collettivi e legga in profondità le tendenze dell’epoca.