«Vuoi lasciare questa barca a vela per una chiatta di pasta e fagioli?» rispose il primario accademico al giovane psichiatra che gli aveva appena comunicato di voler abbandonare la ricerca scientifica per andare a lavorare in un manicomio. Il giovane psichiatra – Tommaso Losavio – in realtà non voleva affatto lavorare nei manicomi, ma chiuderli definitivamente. Gli odori putridi e i miasmi insopportabili li ha respirati per un po’, esattamente a Rieti, la sua prima sede lavorativa; poi, nell’ottobre del 1974 si trasferisce a Trieste dove, con Franco Basaglia, «si stava trasformando un pezzo di mondo» (e molto altro).

LA SFIDA PIÙ AMBIZIOSA, però, Tommaso Losavio la compie a Roma; è qui che, dopo i cinque anni triestini, bisognava «fare la 180» (Tommaso Losavio, Fare la 180. Vent’anni di riforma psichiatrica a Roma, Ets, prefazione di Rosy Bindi, postfazione di Maria Grazia Giannichedda, pp. 148, euro 15).

La capitale è una realtà difficile non solo per le dimensioni, ma soprattutto per le condizioni in cui versavano le istituzioni psichiatriche (e non solo), per la presenza notevole delle cliniche private, per un contesto sociale e politico complesso. Non è affatto facile chiudere il Santa Maria della Pietà, manicomio storico della capitale, già tra i fiori all’occhiello della Roma papalina, e avviare i servizi «alternativi». Le accuse di dilettantismo e di utopismo arrivano da ogni dove, ma «ce la dobbiamo fare»; lo aveva promesso a Basaglia, nel frattempo anche lui giunto a Roma, ma presto stroncato da un tumore cerebrale.

Il primo passo fu quello di far funzionare il Centro di Igiene Mentale dodici ore al giorno e poi trovare locali idonei per coloro che via via lasciavano il manicomio; il processo di de-istituzionalizzazione è avviato ma incontra ostilità istituzionali e burocratiche enormi, momenti di tensione, fasi di stallo. Tra le case popolari di Primavalle, nel 1981, si inaugura la prima comunità a Roma, ma è «l’occupazione di via Baccina» che spicca per rilevanza (la vicenda è ripresa nell’appendice documentaria curata da Claudia Demichelis). Un gruppo di giovani operatrici riesce ad accedere ai tabulati del comune di Roma e ad individuare degli appartamenti idonei per i dimessi dal manicomio; saranno gli stessi servizi ad occupare quello ritenuto più idoneo ad ospitare quattro ex degenti. L’amministrazione comunale ne prende atto e lo stabile sarà assegnato al Dsm.

I PROGETTI PROSEGUONO con le convenzioni siglate con alcuni docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore per la formazione degli operatori, con il coinvolgimento dei quartieri nella lotta allo stigma, con il dialogo serrato con i familiari dei pazienti, con il confronto con i centri sociali; tra le presenze più attive, a Trieste come a Roma, quella delle comunità cristiane di base. D’altra parte la de-istituzionalizzazione mai avrebbe potuto riguardare solo i manicomi, ma «tutto quello che intorno al mondo della follia negli anni era stato costruito». E anche nei secoli, si può aggiungere.

Nel 1993 Losavio ha voluto essere «il direttore per il superamento» del Santa Maria della Pietà: la rete dei servizi si estende enormemente (puntuali le riflessioni sul significato di servizio di comunità contenute nella postfazione di Maria Grazia Giannichedda), il progetto cerca di coinvolgere la città (donandole anche il bellissimo parco), gli scambi internazionali sull’esperienza italiana sono intensi e numerosi (la domanda era: come fate senza manicomi? Oggi la riflessione sull’eredità di Basaglia è oggetto di attenzione da parte della storiografia internazionale); dentro ancora coloro che, ignobilmente definiti «residuo», pongono domande cruciali: «come si fa a ri-entrare fuori? Ma lei lo sa quanto è difficile per me entrare fuori?».

QUESTA STORIA meritava di essere raccontata e qui l’autore lo fa con la giusta cifra della conoscenza meticolosa del protagonista che è stato, ma anche con tutta la ricchezza dell’esperienza umana vissuta. Si volta indietro Tommaso Losavio e racconta dei primi atti politici a Rieti, prima della 180: le assemblee, la demolizione delle reti di sorveglianze esterne, ma soprattutto la curiosità per i ricoverati.

Nel guardare al passato c’è anche un fotogramma importante: gli orrori del trattamento insulinico – una delle terapie cosiddette «della morte» perché i pazienti sprofondavano in un coma così acuto da sembrare cadaveri. Quella discesa negli inferi non è più sopportabile; una sera frana e piange; capisce che bisogna smetterla con i manicomi e che queste macchine mastodontiche potevano essere solo abbattute, non riformate. Capisce che l’organizzazione manicomio poteva essere spezzata ma purtroppo anche continuamente riprodotta (nell’Introduzione, Rosy Bindi si interroga sulle strutture con centinaia di anziani – le Rsa – che la pandemia ha falcidiato e che rivelano sempre quel desiderio di escludere/recludere). Sono accadute entrambe le cose: il manicomio non lo abbiamo più, il desiderio di riaverlo pure, ma sappiamo anche che è possibile farne a meno.