Esce per le edizioni AnimaMundi di Otranto Come tradurre la neve. Tre sentieri nei Balcani, ensemble di testi dei poeti Alessandro Anil, Maria Grazia Calandrone e Franca Mancinelli. Sono opere maturate nel corso di residenze creative itineranti ed invernali – ecco perché la neve – in Bosnia Erzegovina e Croazia. I poeti ribadiscono la coincidenza fra corpo e paesaggio, la grande intuizione del nostro tempo, manifesta in cantori quali Franco Arminio che ne ha fatto manifesto addolorato e incantato, ma già attraversata dai nord-americani.

La geografia intima di Maria Grazia Calandrone si intitola le case infinite, si tratta di appunti in versi che toccano similitudini politiche, memorie collettive, impressioni di un’età agricola italiana che chi attraversa i Balcani sembra ritrovare nel tempo più prossimo. «L’aria ha memoria», scrive la Calandrone, e ci si rituffa in brandelli di un film di guerra – la paura, la fuga, la morte, la solitudine dei corpi spenti. L’occhio registra il viaggio, si lascia trasformare mentre la realtà circola dietro un finestrino. Fattorie, alberi, fiumi, campi di pannocchie. Poi, come giganti emersi dalle profondità della storia, emergono gli umani, i testimoni, i reduci, i sopravvissuti alla tragedia: «Uomini come lacrime cadute / dalle ciglia del nulla». Non manca la critica sociale, il dito puntato a questa Europa, al capitalismo che «sgretola la solidarietà sociale». Ma sarà il capitalismo o saranno gli uomini a consentirlo? Nella città di Tuzla ritornano i volti, le storie, la solitudine che ti porta ad «aderire alle cose» e a non custodire più sogni.

I componimenti di Alessandro Anil portano il titolo il seme della dimenticanza. «Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove», così ha inizio il suono composto della sua voce, una confessione scandita, ritmata, in un pastiche che ha qualcosa di teatrale. Si incontra il paesaggio balcanico e poi si presentano i giganti, come la signora del villaggio di Caprazlije: la sua lotta, la sua incredulità di fronte alle case che si svuotavano e i giovani che partivano e non tornavano, e il desiderio di una vita normale, la terra che non consente la dimenticanza.

Il taccuino croato di Franca Mancinelli è in prosa ed è un documentario di viaggio: «Le mie pupille», precisa, sono «formiche ubbidienti alle scosse di un temporale lontano, si incamminano». Le prime pagine schizzano gli estremi di un confine naturale, il corso di un fiume, un tempo gioco dei bambini, poi regno del filo spinato; uno spazio assurdo, con «qualcosa di sordo», dove sembra si aspetti tutti di riempire la propria «casella di morte». Transitando per confini e posti di blocco il viaggiatore si trasforma in un prigioniero, ne imita gli occhi sgranati, ne imita il respiro affannoso, ne imita il rimpicciolimento: mani che si fanno più strette, idee che compattano, parole che tacciono. Ogni cosa pare un presagio, come un’edicola di legno: «Una crepa discende per tutto il costato di un Cristo dal busto diviso. Rose e fiori di plastica ai piedi. I polsi inchiodati a una croce che non si vede». Che cosa non hanno dimenticato i boschi dell’ex Yugoslavia, che cosa hanno ascoltato e poi sedimentato? Possono davvero le parole addomesticate e artigianate traghettare quel che gli uomini hanno fatto gli uni agli altri? Oppure l’unica speranza è quella di attendere una nuova abbondante nevicata che seppellisca ogni resto, ogni traccia, e faccia ricominciare daccapo?