Il quesito predisposto dall’Ufficio centrale della Cassazione per il referendum non è neutro. È vero che esso si “limita” a riprodurre il titolo della legge approvata dal Parlamento, ciò non toglie che quella formulazione non doveva essere prescelta. Per diverse e buone ragioni. Anzitutto perché – com’è noto – i “titoli” delle leggi non sono votati dal parlamento sono invece formulati da chi ha presentato il testo, nel nostro caso da Renzi e Boschi. Dunque da una parte interessata a conseguire un certo esito del referendum.

Se – come le regole di drafting imporrebbero e com’è sempre stato in passato – il titolo si fosse limitato a dar conto dell’oggetto della riforma il fatto non sarebbe stato rilevante. Non è però questo il nostro caso, poiché oltre all’“oggetto” solo parzialmente indicato, si richiamano impropriamente anche gli auspicati “scopi” e gli eventuali “effetti” della riforma. Giusta – ma non sufficiente – l’indicazione che la riforma riguarda il superamento del bicameralismo paritario, la soppressione del Cnel, la revisione del titolo V; ingannevole l’ulteriore evidenziazione del contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e quella della riduzione del numero dei parlamentari. Questi due ultimi sono scopi o effetti che interpretano la riforma secondo gli auspici dei suoi proponenti. Essi possono essere proposti come argomenti “politici” (ovvero retorici), ma non hanno nulla di oggettivo. In ipotesi, si potrebbero ben sottolineare non solo i risparmi ma anche i costi che questa riforma imporrà. Attrezzare il Senato perché esso possa svolgere le impegnative funzioni che la riforma introduce non sarà a costo zero. Un aggravio di spesa discenderà, ad esempio, dalle nuove competenze relative all’attività di valutazione delle politiche pubbliche e l’attività della pubblica amministrazione, di verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori e l’attuazione delle leggi dello Stato. Ed è una previsione legittima quella che fa ritenere che alla fine i costi di funzionamento delle istituzioni supereranno le riduzioni di spesa. Tutto ovviamente è lasciato al futuro e al giudizio degli elettori. Per questo l’indicazione nella scheda di una sola prospettiva possibile appare sbilanciata. Così anche la riduzione del numero dei parlamentari è solo un effetto parziale, peraltro assai contestato nella sua assolutezza. Secondo alcuni ben più rilevante – riguardando l’assetto complessivo dei poteri e non il singolo organo – sarebbe l’effetto di squilibrio che si verrebbe a determinare tra i due rami del parlamento. Aver reso assoluto un elemento (la riduzione dei parlamentari) senza indicare anche i possibili limiti e scompensi che possono conseguire non fa giustizia dell’obiettività del quesito.

La formulazione è inoltre incompleta con riferimento all’oggetto. Si sono omesse, infatti, parti della riforma indiscutibilmente assai significative. Non si richiamano le modifiche che incidono sulla Corte costituzionale (composizione e competenze), quelle che modificano le modalità d’elezione del presidente della Repubblica, le disposizioni relative ai diversi iter di formazione delle leggi, la decretazione d’urgenza, il voto a data certa, nulla sulle nuove forme di democrazia diretta. Anche su queste parti andremo a votare ma dalla lettura della scheda referendaria non risulta.

La formulazione del quesito è stata indicata dall’ufficio centrale presso la Corte di Cassazione. In applicazione della legge? Qui si apre una questione complessa di interpretazione delle norme vigenti e dei precedenti. Da un lato, infatti, nei due referendum costituzionali che si sono svolti il quesito aveva riportato i titoli delle leggi, senonché – a differenza di oggi – essi si limitavano all’indicazione dell’oggetto della riforma nel suo complesso (riforma del Titolo V e riforma della II parte della costituzione).

Dunque, non si potevano sollevare questioni sostanziali. La norma di legge vigente in materia (l’articolo 16 della legge 352 del 1970) peraltro è piuttosto chiara sia nello spirito che nella lettera. Nel caso di revisione della costituzione (a differenza delle altre leggi costituzionali, che hanno necessariamente un titolo proprio), come ha rilevato di recente Paolo Carnevale, il quesito deve indicare espressamente gli articoli della costituzione che si vogliono modificare. È vero che i precedenti richiamati del 2001 e del 2006 non sono in linea, allora prevalse una ragione sostanziale: anziché un elenco interminabile di articoli è apparso più opportuno una indicazione complessiva e neutra.

Ma di fronte a un titolo fuorviante la rigorosa applicazione della lettera della legge sarebbe stata necessaria. Nel caso dei referendum abrogativi, proprio per evitare schede referendarie troppo lunghe e incomprensibili, s’è adottata la misura di far elaborare all’ufficio centrale un titolo autonomo e riassuntivo «al fine dell’identificazione dell’oggetto del referendum» (articolo 1 della legge 173 del 1995), per il referendum costituzionale non so se si poteva operare in analogia. Quel che è certo è però che difronte al vulnus di beni costituzionalmente protetti (la corretta espressione della sovranità popolare, il regolare svolgimento competizione referendaria) sarebbe stato meglio impedire che la scheda diventasse l’ultimo tentativo di indirizzare impropriamente la scelta dell’elettore.