Dopo la festa del proletariato giovanile ai parco Lambro a Milano, la festa de «i giovani con Democrazia proletaria» a villa Borghese a Roma, e infine, venerdì sera, il «concerto gratis» di Muzak e Stampa Alternativa a piazza Navona. la tematica della musica pop e rock, dell’industria della musica, della possibilità di una musica autonoma e autogestita, si sono imposte all’attenzione. Per dieci anni, dal ’65 ad oggi, dai Dylan dei primi movimenti universitari americani ai Pink Floyd di questi ultimi anni, la musica pop è stata per milioni di giovani uno strumento di liberazione, di cultura, di autogestione del tempo libero. Ma è diventata anche il centro di un nuovo sviluppo per l’industria culturale, per nuovi mezzi di diffusione di precisi messaggi e in particolare un notevole mercato per l’industria del disco. Anche in Italia negli ultimi anni si sono moltiplicate le iniziative per lanciare nuovi prodotti sul mercato nazionale e per assicurare una importazione relativamente tempestiva e contemporanea all’uscita dalle «novità» in Usa, in Inghilterra, in Germania. Grossi nomi, da Joan Baez a Frank Zappa, dai Led Zeppelin agli Emerson, Lake & Palmer ai Jethro Tull sono arrivati nella «colonia» Italia a presentare la loro produzione e, soprattutto, a presentare sé stessi.
Negli ultimi cinque anni, decine di concerti sono stati organizzati nei Palasport delle maggiori città italiane, accompagnati da grossi lanci pubblicitari, dalle pagine a colori dedicate ai vari divi sulle cosiddette riviste specializzate, con le novità trasmesse in anteprima dalle trasmissioni radiofoniche «per giovani». Un gioco normale per una qualsiasi industria che vuole affermare un suo prodotto in uno o più mercati. Niente di straordinario, da questo punto di vista. Ma la grossa mistificazione presente in questo tipo di operazione commerciale e industriale sono i rapporti fra questo tipo di struttura e i suoi fruitori, le centinaia di migliaia di giovani che anche da noi comprano dischi e riviste, seguono i concerti organizzati dagli impresari delle case discografiche. E cioè la montatura che i discografici fanno sopra questo tipo di speculazione (perché di speculazione si tratta) per mascherare i loro profitti esorbitanti e per costruire strumenti di alienazione e di rapina, nuovi e più raffinati. Innanzitutto, il principale settore su cui si basa l’industria musicale, e da cui dipendono tutte le altre iniziative, è la produzione dei dischi. Nel nostro paese il mercato discografico, come d’altronde quasi tutto il sistema economico, dipende da quello americano e in misura minore da quello inglese. Infatti in questi paesi i padroni della musica dal dopoguerra ad oggi hanno messo in piedi un colossale sistema di produzione e di vendita che negli ultimi decenni ha raggiunto cifre enormi: nel solo 1972 negli Usa il bilancio musicale segnalato dal Times era di 1.200 miliardi. Columbia, Rca, Warner, Capitol, le maggiori case editrici, mantengono un bilancio che varia annualmente dagli 80 ai 200 miliardi. Ma il livello del profitto è aumentato, o almeno ha ritrovato un mezzo per non oscillare troppo, da quando i padroni delle case editrici, i manager, hanno capito l’importanza dei festival, dei grandi raduni organizzati sotto la stella di qualche divo del pop. Dai primi festival americani (Monterey 1967) e inglesi (Isola di Wight) le case discografiche hanno gettato le basi per un loro sviluppo multinazionale e anche per un vero e proprio controllo di questa forma di «cultura», con tutte le implicazioni dì carattere sociale ed economico che essa comporta.
I festival servono dunque a lanciare il cantante o il gruppo, ma il centro del gioco rimane sempre il disco. In Italia, pur seguendo le orme dei padroni nordamericani, si tarda invece a capire l’importanza delle moderne campagne promozionali per i nuovi prodotti e non si fa niente per stimolare una produzione nazionale di tipo originale. La musica leggera, da noi, è ferma alla canzone napoletana del secolo scorso che, tradotta e leggermente rinnovata, riempie i festival e i carrozzoni che stampa, Rai-tv e giunte locali organizzano. Ma a partire dal 1966 (3 milioni di dischi a 33 giri venduti), seguendo la scia dei successi e delle tendenze d’oltreoceano, si arriva ad una eccellente ripresa fra il 1968 e il 1970 (in pieno boom discografico e culturale del pop-rock in Usa e Inghilterra: nella produzione della Columbia il rock passa dal 15 per cento del fatturato al 50 per cento). La stagione ’70-’71 infine rappresenta la grande rivincita: si passa dai 42 miliardi e mezzo del 1970 ai 52 miliardi del 1972 (secondo alcune ricerche apparse su Tempo del 25 gennaio ’72, ben 27 miliardi del totale vengono spesi da giovani sotto i 25 anni: si tratta per il 180 per cento di dischi di musica pop). Dai 3 milioni e mezzo di 33 giri venduti nel 1970 si passa ai 4 milioni e 600 mila del ’71 e ai 5 milioni e 700 mila venduti nel 1972.
In questi anni c’è un netto calo dei 45 giri: le opere rock richiedono giustamente maggior spazio e, nel generale avvicinamento dei giovani italiani a questo genere, si sacrifica il tradizionale «singolo», ma i motivi del successo dei long playing (dischi a lunga durata, cioè 33 giri) sono anche altri: non ultimo il fatto che gli editori preferiscono mettere sul mercato un prodotto che fa guadagnare almeno 5 volte più del 45 giri. Questi passano dalle 29 milioni e 800 mila copie del 1970 ai 20 milioni e 300 mila venduti nel 1972; questo calo però è compensato dal fatto che subentrano nello stesso periodo altri mezzi sempre prodotti dalle stesse case discografiche: le musicassette (dal milione e mezzo del 1970 ai 5 milioni e 400 mila del 1972).
In piena crisi della cosiddetta canzone italiana (i vecchi carrozzoni tipo il festival di Sanremo o Canzonissima subiscono una grave perdita di popolarità), il mercato nazionale del disco viene sommerso dalla produzione estera (mentre i cantanti nostrani continuano a privilegiare i piccoli formati, nel 1970 il 70 per cento dei 33 giri più venduti sono stranieri) e le tendenze dei padroni della musica, come d’altra parte tutto il sistema finanziario nazionale, sono ormai chiare: il pubblico tradizionale della canzonetta continuerà ad essere in qualche modo soddisfatto, ma ben vengano nuove mode, nuovi messaggi musicali e culturali che, al di là di un loro effettivo valore politico e sociale, fruttano molto più dei nostrani Celentani e Oriette Berti. (29 giugno 1975)