Vi siete mai domandati come possa sentirsi una parola? Specie se questa parola viene usata senza più aderenza alle proprie origini, al proprio etimo, al proprio giusto contesto? Sara Cassandra, in uno sforzo onirico-terapeutico cerca, nel suo La solitudine del cruciverba incompiuto. Storie di tranelli linguistici e disturbi psicosemantici (Iuppiter Edizioni, pp. 160, euro 14), di rendere la giusta dignità e autenticità a molte di queste povere parole. Farà parlare le parole, in dialoghi socratici, dove, pian piano mentre si lamentano e si disperano il loro inconscio (assieme a quello dell’autrice) emergerà dis-velando la loro verità e con essa il pressappochismo del mondo. Perché è proprio la parola che, trascendendo il segno, si fa significante e nel suo inceppamento di senso (dal lapsus, all’errore di scrittura, alla dimenticanza eccetera) si incarna in sintomo e attraverso questo l’inconscio si dischiude e parla, come direbbe Lacan.

NEL LIBRO le parole si comportano come i «cari» defunti dell’Antologia di Spoon River, nell’andirivieni di storie, ci svelano i loro più intimi e radicali turbamenti, una dopo l’altra, come in una via crucis ci parlano di sé, dei propri sintomi, delle proprie nevrosi e con loro svelano la sintomatologia delle nevrosi psicosemantiche del mondo contemporaneo, nel quale, l’autrice stessa si è immersa tentando poi di riemergere.

Apriamo il libro e ci ritroviamo in mezzo a dialoghi a inconscio aperto con parole importanti (e per questo, spesso, disperate): Filosofia, Amore, Idiosincrasia, Cielo, l’eterno dialogo tra Illusione e Allucinazione (e il loro corollario: il Delirio), Coscienza e così via. Prendono forma anche strane figure, personaggi caleidoscopici, ironici, vianiani, che animano lo squinternato dibattito pubblico contemporaneo.

Nei 34 brevi racconti proposti da Cassandra, in un mélange di specchi e retroilluminazioni ci troveremo, ad esempio, davanti ad un ateo che non voleva più dire «addio», giungendo a scoprire che, se eliminava ogni parola riferita al sacro ed al religioso, sarebbe rimasto muto. Oppure ci smarriremo nel regno della logica ferrea (un po’ rabberciata) dell’Autobiografia di un terrapiattista.

ALL’INTERNO di questo originale e arguto testo ridiamo di gusto, ma ci disperiamo anche, assieme all’autrice e alle sue parole. Non a caso il titolo stesso ce lo suggerisce: il cruciverba è incompiuto, è solo, nessuno può riempirlo perché la sua soluzione era racchiusa in un libro di cui restava una sola copia ed il libro è bruciato. Siamo davanti al vuoto incolmabile.

Ci inscriviamo nell’indicibile. Cassandra dice: «Chissà se era meglio il destino del cruciverba mai nato». Tutto il testo è permeato, come in Cioran, dalla insofferenza per la nascita, per questo essere stati gettati-nel-mondo senza averlo chiesto. «La vita mi è capitata. Non mi è stata donata. – Però te la tieni. – Me la tengo solo perché non voglio morire» dice Cassandra. La terapia che l’autrice ci propone passa per la metafora dell’indovinello. Come può aiutarci un semplice indovinello ad uscire dall’angoscia esistenziale che le parole ci gettano d’innanzi? «Nel suo creare trappole a chiunque tenti di avvicinarsi alla parola incriminata, non fa che impreziosire la proprietà della parola che nasconde».