Si avvicina lo showdown in Consiglio dei ministri sulla revoca del sottosegretario Armando Siri. In senso politico, Siri è già un ectoplasma governativo, in quanto, per l’articolo 10, comma 3, della legge 400/1988 i sottosegretari «esercitano i compiti ad essi delegati» dal ministro.

Quindi la decisione di Toninelli di ritirare le deleghe ha chiuso sostanzialmente la partita. Va detto, peraltro, che le deleghe sono conferite con decreto ministeriale pubblicato nella Gazzetta ufficiale e vanno ritirate con le stesse modalità. A una prima verifica, un decreto ministeriale recante il ritiro non risulta ancora in Gazzetta. In tal caso, Siri sarebbe ancora in attesa del formale licenziamento.

Altra cosa è la revoca di Siri dalla carica. Per l’articolo 10, comma 1, della stessa legge 400 i sottosegretari sono nominati con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del premier, di concerto con il ministro di riferimento, sentito il consiglio dei ministri. La revoca, non disciplinata, per principio generale deve avvenire secondo le stesse modalità. Dunque, alla determinazione già esplicitata di Toninelli e di Conte deve aggiungersi un passaggio nell’organo collegiale per rilevarne l’orientamento. Questo significa – per quel che sappiamo a oggi – che giungerà in consiglio una proposta di Conte e di Toninelli per la revoca, sulla quale i ministri dovranno pronunciarsi. I numeri danno vincente M5S.
Alla fine una conta è inevitabile, se la proposta di revoca è presentata e messa in discussione. La conta è necessaria a certificare che il consiglio è stato «sentito», e se manca non si arriva al decreto presidenziale di revoca. Si evita la conta solo non presentando o ritirando la proposta, o non chiudendo la discussione. Opzioni rimesse alla decisione di Conte, ai sensi del regolamento interno del consiglio dei ministri.
È invece ovvio che di fatto la conta ci sarebbe comunque se i ministri leghisti disertassero la riunione.

Quindi il passaggio politicamente decisivo è il prossimo consiglio dei ministri. Se ci si arriva con la proposta di revoca all’ordine del giorno, certificherà una spaccatura attraverso i voti contrapposti o l’assenza di uno dei partners di governo, o ancora vedrà la ritirata di M5S prima di una pronuncia dell’organo collegiale. In questo si esaurisce la valenza politica della vicenda. Il dopo è irrilevante. La proposta al capo dello Stato di revoca potrebbe non essere formalizzata se le dimissioni di Siri intervenissero prima. E se invece la proposta fosse presentata, il decreto presidenziale di revoca sarebbe scontato, pure con pochissimi precedenti. Non compete al capo dello Stato rendersi parte in un conflitto tra partners di governo.
Sarebbe stata pensabile nella politica di un tempo una analoga vicenda?

Probabilmente no, perché tutto nasce dalla natura peculiare dell’esecutivo in carica, e dall’avvicinarsi del voto. Mentre mancano una solidarietà di governo e un progetto politico condiviso, tutto si gioca in vista delle urne. In particolare, M5S puntando su una questione identitaria vuole contrastare il trend negativo che lo vede nei sondaggi a una decina di punti dalla Lega. La vicenda Siri è un avvicinamento al dopo-voto. L’opinione prevalente è che le cose cambieranno, con un rimpastino, un rimpastone, o una crisi formale, magari a richiesta di Mattarella. La novità è che Salvini ha colto l’occasione per notificare un ultimo avviso.
Il punto vero è: quale impatto ne verrebbe sull’azione di governo? Tra i dossier aperti uno si segnala per la sua portata politica, anche nel tempo: il regionalismo differenziato, anch’esso richiesto a breve in consiglio dei ministri dalla Lega. Da mesi voci leghiste autorevoli, a partire da Zaia, ripetono che senza autonomia è crisi di governo. Si potrebbe ora rovesciare il mantra, e dire che non ci sarà rimpasto o crisi senza autonomia, anche perché servente per un disegno politico di più ampia portata. Ecco infatti la via per un’Italia non più unita e nemmeno federale, ma confederata, in cui il Salvini vittorioso potrebbe alzare un muro ideale tra Nord e Sud per diventare davvero l’Orbán del versante meridionale.
Fantapolitica? Può darsi. Improbabile? Forse. Possibile? Certamente. Come è possibile che i primi refoli di vento secessionista avvertibili nel Sud diventino tempesta.