La «strategia della tensione» non ebbe inizio con la bomba di piazza Fontana. La strage fu cercata ben prima. Alla fine del 1969 si contarono ben 145 attentati, dodici al mese, uno ogni tre giorni.

PER QUANTO la maggior parte degli attentati di quell’anno fossero di marca neofascista stante gli obiettivi (sedi dei partiti di sinistra, monumenti partigiani, sinagoghe) o perché erano stati identificati gli autori, gli anarchici furono messi sul banco degli accusati. Si sviluppò una campagna virulenta nei loro confronti, in particolare dopo l’arresto di alcuni militanti per le bombe milanesi del 25 aprile.
La ricostruzione minuziosa e accurata di questa vicenda la dobbiamo a Paolo Morando (Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, pp. 369, euro 20), che anche sulla base degli atti giudiziari (dodici faldoni messi a sua disposizione dalla Casa della Memoria di Brescia), è riuscito a riportare alla luce una pagina fondamentale della «strategia della tensione».

LA QUESTURA di Milano, tramite l’Ufficio politico, guidato da Antonino Allegra, cercò con ogni mezzo di costruire dei «mostri» da sbattere «in prima pagina». A questo scopo, passo dopo passo, furono artefatti i verbali d’interrogatorio, estorte confessioni con autentiche torture, condotti arresti illegali, manipolate le perizie e subornati i testi, come nel caso di una figura, Rosemma Zublema, che si rivelò comunque una calunniatrice seriale. In prima fila si distinsero il commissario Luigi Calabresi e i brigadieri Vito Panessa e Pietro Mucilli, protagonisti di innegabili violenze ai danni degli imputati verso cui dispensarono botte e minacce di morte. Gli stessi tre che si ritrovarono nel dicembre successivo a interrogare in questura Giuseppe Pinelli, nella notte fra il 15 e il 16 in cui l’anarchico si ritrovò defenestrato. Dietro al gruppo di anarchici si cercò di incolpare come presunta «mente» l’editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli, uno degli obiettivi politici principali dell’«operazione», per cui già da anni si stava lavorando con una martellante campagna diffamatoria orchestrata dall’Ufficio affari riservati. Il processo si rivelò un boomerang. Le accuse franarono miseramente e il castello di falsità, costruito con testimoni tanto manipolati quanto inattendibili, crollò al punto che fu lo stesso pm, Antonino Scopelliti, a chiedere l’assoluzione di tutti gli imputati per gli attentati del 25 aprile. La sentenza si uniformerà a queste richieste, come successivamente l’Appello e la Cassazione.

NEL FRATTEMPO i sei imputati si erano fatti chi un anno e mezzo e chi due anni di carcere. Pietro Valpreda, dal canto suo, nel corso temporale del processo, iniziato nel marzo 1971, era ormai detenuto da sedici mesi con l’accusa di essere l’autore della strage di piazza Fontana, proprio quando, di lì a poche settimane, il 9 aprile, si incardinerà ufficialmente la cosiddetta «pista nera» per le bombe del 12 dicembre con i mandati di cattura per i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. La verità cominciava a venire a galla.

CON GLI ATTENTATI del 25 aprile 1969, questi i fatti, si sperimentò da parte dei registi della «strategia della tensione», l’Ufficio affari riservati in testa con l’Ufficio politico della Questura di Milano, la trama che avrebbe dovuto incastrare gli anarchici. «Una prova generale», prima del 12 dicembre.