Come molti vecchi ho le fisse; forse sono anche “malvissuto”, come quello del Manzoni. Mi sono sempre considerato un civile progressista. Ora sono semplicemente incattivito e a volte stento a riconoscermi. Poi mi chiedo se sono io fuori dalla realtà o se è la realtà che, come si dice oggi, è diventata irreale.

Vivo a Milano. Una città retta da un sindaco mediocre, con una giunta mediocre; una città che da mesi vive in una bolla, come quelle che da bambino facevo con una cannuccia e l’acqua col sapone: il finto successo dell’Expo (non c’è bisogno di indagini particolari, basta parlare con qualche tassista); il cemento della Darsena sui Navigli spacciato per grande spazio d’incontro; lo scempio dell’identità e della storia urbana perpetrato da un’accozzaglia di grattacieli magari anche belli presi singolarmente ma affatto incongrui nel contesto (Milano ha subito grandi bombardamenti ma non è stata rasa al suolo come le città tedesche); la folla del centro che fa compere nel solito Quadrilatero a incrementare un’economia che da anni si basa sui vestiti.

L’unica cosa veramente eccellente, cioè i trasporti pubblici, è sotto la minaccia di trasferimento in un nuovo carrozzone regionalministeriale.

E delle periferie si parla soltanto.

Le buche dei marciapiedi fanno nobile gara con quelle romane (da noi sono forse meno numerose; in compenso i marciapiedi sono ondulati come un mare da cui però non emerge, ahimè, nessuna Afrodite). E ci si avvelena beati agli happy hours di corso Como, pregustando la coca delle ore piccole. Ora sempre il sindaco “di sinistra”, già fido scudiero di Letizia Moratti, testé premiata con l’Ambrogino d’oro, tenta anche di santificare l’emblema della Milano da bere, il grande collettore di generose offerte nel mitico ufficio al quarto piano di piazza Duomo 19, l’ ”esule” Bettino Craxi.

Sul piano nazionale, grazie al governo rignanese, abbiamo avuto qualche anno di twist sulla mattonella, con il trionfo della chiacchiera offensiva e il tripudio dei massmedia nazionali. Non uno dei provvedimenti sbandierati con tamurriate e marce dell’Aida ha avuto esiti positivi (e infatti tutto l’edificio sta cadendo pezzo per pezzo).

Dopo il referendum tutti i giornalisti che fino a meno di 24 ore prima turibolavano la classe politica della provincia fiorentina, con agili volteggi da carillon ottocentesco (ma quelli erano più aggraziati) hanno scoperto, guarda un po’, che il re era nudo.

Le istituzioni, più guardinghe della stampa, sono state molto più cautelose, hanno assorbito il colpo basso referendario con l’elasticità di un Permaflex, tutto è rimasto eguale, salvo il grottesco trasloco del ministro Alfano dagli Interni agli Esteri tanto per tenerci allegri nei prossimi mesi. Tutto sta rientrando negli alvei: un po’ più di bon ton e un po’ meno cagnara; la Raggi come unico problema nazionale; le solite intemperanze di Grillo; i saggi della cosiddetta sinistra Pd che con le mani dietro la schiena passeggiano pensosi nelle loro stanze come nella valletta amena del Limbo dantesco; il pas de quatre delle frange di quella che un tempo si chiamava “sinistra extraparlamentare”…

In compenso furoreggia la distopia di Orwell. Che cosa di più geniale che chiamare la semplice, vecchia balla “post-verità”? O reinventare sul Financial Times il Ministero della Verità per mettere a tacere il 60% degli elettori?

Ma allora ci siamo inventato tutto? Per un anno ci siamo divisi in discussioni accanite, abbiamo rotto amicizie, ci siamo guardati in cagnesco per difendere l’ultima cosa sana rimasta in questo sciagurato paese… tutto per tornare all’inerzia e alla passività e alla rassegnazione?

Ma in quale altro paese un sussulto di vitalità e di dignità che fa stravincere una consultazione referendaria su questioni essenziali come la carta fondativa del nostro vivere insieme passerebbe come un temporale estivo? O quello scatto è stato l’ultimo guizzo del moribondo?