Quanti anni sono che ne parliamo! Con toni sempre più allarmati per la loro sopravvivenza mano a mano che i processi di concentrazione avanzavano, che le economie di scala divoravano tutto. Ne è passato del tempo da quando André Schiffrin ci metteva in guardia da un’«editoria senza editori» che avrebbe cancellato ogni soggettività culturale a favore di una oggettiva, impersonale, macchina da guerra per la conquista del mercato. Alla difesa dell’indipendenza abbiamo dedicato nel corso degli anni decine di articoli, convegni, manifestazioni, fiere, presidi, petizioni. Abbiamo proposto, e a volte sperimentato, formule organizzative reti e associazioni, mentre, in ordine sparso, editori piccoli e medi, librerie «di proposta», produzioni cinematografiche e musicali, continuavano a proliferare, a nascere e morire in gran copia. Intanto la vita grama si riproduceva senza particolari scosse, i grandi gruppi continuavano a fondersi e ristrutturare il mercato a propria immagine e somiglianza e la «bibliodiversità» a conservarsi nella sua orgogliosa clandestinità.

Converrà allora porsi qualche domanda priva di tatto su quella rivendicazione di indipendenza senza aggettivi che per tanto tempo abbiamo considerato una qualità morale autosufficiente, un certificato di qualità senz’altri requisiti. Un principio di legittimazione ad uso di piccoli e medi narcisismi. Un certificato di identità a costo ridotto e alla portata di tutti. Ignoriamo forse come le piccole imprese editoriali possano spesso essere un gioco, talvolta un capriccio, geloso delle proprie fisime e prigioniero dei propri umori? Certo queste qualità così infantili possono favorire la sperimentazione, l’azzardo, l’inconsueto. E questo è un pregio. Ma anche la stonatura, la mediocrità, l’approssimazione, perfino l’autismo. E questo è senza dubbio un inconveniente.

Che esista un’equivalenza garantita tra editoria indipendente ed editoria «di qualità» è una credenza infondata e autoconsolatoria. In tutta indipendenza si può scegliere di imitare in sedicesimo le più banali scelte orientate al mercato o fare anche di peggio. Di contro, le grandi dimensioni e le grandi risorse non costituiscono un impedimento assoluto alla scoperta, all’innovazione, all’eccellenza del risultato. Seppure il modesto spessore culturale dei manager che attualmente governano le concentrazioni editoriali lo rendano assai raro se non improbabile. Ma volendo prendere seriamente atto di questi limiti ed esaminare senza infingimenti le peripezie dell’indipendenza, allora non potremo esimerci dal porre una semplice domanda: indipendenti da cosa e per fare che cosa? Non basta sottrarsi ai cartelli editoriali, non basta non dover rispondere a un padrone o a una assemblea di azionisti, nemmeno collocarsi, più o meno concretamente, al di fuori da quella che una volta veniva chiamata «industria culturale». Bisogna combatterla. Destrutturarne i meccanismi, disturbarne le abitudini, scompaginarne l’agenda. E questo non lo si può fare rinchiudendosi in un cenacolo che si ciba della propria squisitezza. Non lo si consegue mettendo in scena uno stucchevole exemplum virtutis e men che meno crogiolandosi nella condizione operosamente sobria del lavoro artigiano nelle sue innumerevoli botteghe. L’indipendenza dalle contraddizioni e dai conflitti che lacerano la società non è che un esercizio narcisistico privo di qualunque interesse. Che cosa farsene di un’autonomia incapace di sviluppare discorso critico? Di non stare solo fuori, ma di essere anche contro? Di parlare a chi non ha fatto pace con «lo stato di cose esistente»? L’indipendenza costituisce la condizione di un progetto, non ancora il progetto stesso.

La possibilità di scegliere non sostituisce l’oggetto della scelta. È di questo, semmai, della capacità di sovvertire il senso comune, di alterare l’ordine del discorso, di deviare dalle regole e dalle consuetudini, di svelare ciò che è celato, che ci interessa parlare. Questo uso dell’indipendenza vanta, del resto, esempi illustri, ma che purtroppo oggi non possiamo che definire «storici». Esperienze nate e cresciute in altri tempi e con altre comunità di lettori: la Feltrinelli di Giangiacomo e le sue prime librerie, la Einaudi di Giulio dal dopoguerra agli anni ’80. Una serie ininterrotta di «scoperte» che rispondevano tempestivamente alla domanda di una società in rapida trasformazione. Case editrici che costruirono la cultura critica italiana in quegli anni contro l’assetto dominante dei poteri e dei saperi. Non possiamo, beninteso, concederci nostalgie. Il posto privilegiato che la carta stampata occupava nel mondo è acqua passata così come l’intensità del conflitto sociale. Oggi il passaggio dall’autonomia all’antagonismo si articola su una pluralità di strumenti comunicativi (tra i quali il libro non è affatto scomparso) che interagiscono a diversi livelli. Ma è un passaggio che continua a «dipendere» dalle inquietudini di un mondo in subbuglio e dalla sua domanda di cambiamento. Ben venga, allora, una combattiva «editoria dipendente».