È assai difficile, di questi tempi, leggere un qualche saggio sulle condizioni della sinistra italiana, senza provare un invincibile senso di noia. E non è una noia leopardiana, foriera di creatività. Non accade con questo breve di testo di Andrea Ranieri, La memoria e la speranza. Oltre le macerie della sinistra, post-fazione di Tomaso Montanari (Castelvecchi, pp. 72, euro 10).

L’INTERESSE A LEGGERE questo scritto nasce da un insieme di ragioni. Intanto, si tratta di una riflessione sulla disfatta di quest’area politica elaborata prima della sconfitta elettorale del 4 marzo, dunque già lucidamente prevista. È davvero curioso osservare come, in questo campo politico, coesistono liberi osservatori forniti di strumenti non usurati di analisi e perciò capaci di anticipare gli eventi, e una élite di praticanti della politica che, nella loro ostinata determinazione a replicare gli errori del passato, perseguono le proprie sconfitte con stupefacente imprevidenza.

MA È POI LA FORMA dello scritto che cattura l’attenzione del lettore, ed è un modulo non solo letterariamente felice, ma oggi forse l’unico politicamente accettabile: una specie di diario di vita. Inizia come racconto di un ragazzo di Sarzana, figlio di un partigiano, che conosce precocemente la passione della politica e che percorre i vari stadi della storia repubblicana del secondo XX secolo, sino ad oggi, sempre immerso nella militanza , dentro il Pci e nelle file del sindacato. È una forma di racconto eticamente accettabile perché, mescolando analisi e vita privata- rappresentativa, tuttavia, di tutta una generazione – Ranieri non si tira fuori dalla mischia come un osservatore esterno.

Al contrario si mette in gioco, si rappresenta parte del mondo in cui si consumano errori, lacerazioni, drammi. È una prospettiva che rende dunque più credibili le sue parole. Ma non sarebbe sufficiente senza la sostanza, la materia costitutiva di tutto lo scritto: la politica qui è raccontata come rapporto con le persone in carne ed ossa, storia della loro vita, lotte, speranze. Una dimensione scomparsa oggi perfino dalla retorica elettorale della sinistra.

INEVITABILMENTE, l’intonazione del testo volge all’amaro della disillusione, ma sempre nella forma della critica sorretta da una visione altra. «Per me il popolo era quello che non andava più a votare, che sentiva le vecchie formule della politica politicante estranea ai problemi della sua vita di ogni giorno, quelli che provavano a cambiarla e quelli che la subivano provando a sopravvivere in condizioni di esistenza disperate. Le persone che sempre più spesso incontravo per strada o in autobus con lo sguardo perso nel vuoto, i migranti che ti chiedevano qualche centesimo per mangiare, e le ragazze povere che si sforzavano di fingere eleganza combinando qualche straccio smesso. E i ragazzi delle infinite precarietà, e gli operai di cui tutti si erano dimenticati quando si era smesso di pensarli come classe».

È UNA POSIZIONE che tenta di rimettere al centro della lotta politica il lavoro, ancora cuore pulsante della società capitalistica, ma fuori dalle prospettive sviluppiste, in grado perciò di guardare all’economia non come un pianeta a parte, ma come macchina che coinvolge e sconvolge gli equilibri del mondo vivente.

Naturalmente il libretto ha un suo interesse per così dire storico, perché attraverso le sue traversie personali Ranieri ricostruisce dall’interno le vicende degli ultimi anni e mesi, dalla grande mobilitazione referendaria all’esito del 4 marzo. E lo fa lumeggiando alcuni passaggi, assai utili per comprendere anche le ragioni della sconfitta elettorale, che passa attraverso il fallimento dell’operazione Brancaccio, tentata da Tomaso Montanari e Anna Falcone. Una ricostruzione che tuttavia assume valore, sia culturale che politico, in quanto il punto di vista che l’ispira è di critica radicale della storia recente della sinistra. Un punto di vista interamente riassumibile nella riflessione che Bruno Trentin, con cui Ranieri collaborò, diede della cultura dei Ds nel 2003: «Una cultura che assume la capacità di adattamento mimetico della politica ai cambiamenti e alle opportunità non solo come una necessità ma come un valore; un indice appunto della sua modernità».

MEMORIA DUNQUE AMARA e disillusa, ma non rassegnata. Perché la sinistra è smembrata e dispersa ma non vinta. Come scrive Montanari, che cita i versi di Franco Marcoaldi: «Una tribù battuta, dispersa, dissanguata dai suoi stessi mille tradimenti: eppure ancora viva per la più elementare delle ragioni. E cioè che, in un mondo sempre più terribilmente ingiusto e diseguale, a qualcuno – a molti – viene ’spontaneo, naturale opporsi ad ogni forma’ di ingiustizia».