Una struttura stabile per aggregare gli appassionati di cinema, la Mediateca di Bari, diretta da Angelo Amoroso d’Aragona è stata inaugurata il 7 marzo, con un programma giornaliero di incontri e proiezioni (oggi c’è la rara occasione per vedere (alle 20 e alle 22) La verifica incerta di Alberto Grifi e il ritratto che del regista ha fatto Paolo Brunatto). Nella settimana del Bif&st, il festival di Bari (16-23 marzo) in Mediateca si sono tenute numerose iniziative come la presentazione del libro Il film in cui nuoto è una febbre.

Registi fuori dagli scheRmi (ed. Caratteri mobili) a cura di Luigi Abiusi direttore della rivista online Uzak che ha voluto dare evidenza anche cartacea ai cineasti emergenti (come Lisandro Alonso, Yorgos Lanthimos, Michel Gondry, Lav Diaz) e con Massimo Causo, autore del saggio su Apichatpong Weerasethakul mostrare le nuove frontiere del cinema. Ma irrompe anche il cinema di genere, la storia del cinema italiano, arriva il maestro che ha ispirato Tarantino: avere come ospite Enzo G. Castellari in Mediateca è puro cinema. Tanto più se accompagnato e «indirizzato» da Fabio Segatori, regista e produttore del tutto anomalo che si muove tra l’Italia e Los Angeles e che ha realizzato un documentario sui trucchi del mestiere di Castellari Come puoi pensare che è finto? Più vero del vero infatti è la parola d’ordine delle maestranze italiane (ricordiamo quando Mario Bava scatenava battaglie navali in vaschette con natanti fatti di conchiglie di pasta Agnesi). Da quando Tarantino si è ispirato a Quel maledetto treno blindato per il suo Bastardi senza gloria, è tornato alla ribalta il cinema «artigianale» italiano degli anni ’70. Oggi Tarantino è ancora stupefatto da Castellari: «Crazy idea!» ha commentato quando gli ha raccontato il suo nuovo film con tutti i personaggi del vecchio west (con John Landis nella parte del terzo fratello Lumère che vuole filmare tutto prima che tramonti il mito, e poi Joe Dante, Cronenberg, Costa Gavras…) dove Franco Nero uccide in apertura i tre mascherati a cavallo, Tarantino, Rodriguez e Eli Roth, ma con pallottole fatte di dollari perché non ha più munizioni.

«La mia carriera, dice Castellari, proviene da una famiglia di cinema, mio padre era Marino Girolami che ha diretto 104 film (Walter e i suoi cugini, Le magnifiche sette, le motorizzate…ndr). Ha fatto tutti i generi, poi diventa famoso con Pierino. Mio padre era un barzellettiere. Fermava il set per raccontare una barzelletta. Il produttore gli ha dato una cifra minima per fare Pierino e gli ha detto: se incassi un miliardo te lo raddoppio e così via. Il film costò 200, 300 milioni e incassò 9 miliardi e mezzo e mio padre diventò ricco. E io sono l’erede. Anche io vivo di humour e quando spiego una scena la spiego in chiave comica. Il mio sogno era fare un film storico. Quando mio padre girò L’ira di Achille ebbi l’idea di fare un film di recupero, utilizzando il suo set. Ero il suo assistente e non riuscì a farlo, doveva intitolarsi Troia città aperta». Certo non doveva essere una citazione del romanzo di Kazimierz Brandys, il suo ideale di film è sempre stato il geniale Hellzapoppin, tutta la sua carriera è stata impostata su quel film. La guerra di Troia l’ha poi trasportata in abiti moderni in Ettore lo fusto dove Giove non poteva essere che De Sica, Mercurio Luciano Salce e Ulisse un ancora sconosciuto Giancarlo Giannini: «È proprio da questo film che la Wertmuller ha poi preso la caratterizzazione di Giannini come napoletano. Lui era di La Spezia e non parlava napoletano per niente e Pasquale Squitieri gli registrò le battute che imparò benissimo».

Castellari mette al bando la parola «poliziottesco», preferisce il termine «poliziesco», sottolinea che di film italiani ne ha visti pochi (ma dei maestri, tutti), è sempre stato un «americanista», ha mandato i figli alla scuola americana e ha girato i film in inglese. Ma da cosa nasce la sua fama di «fascista?»: «Il giustiziere della notte venne dopo il mio Il cittadino si ribella e fu allora che venni tacciato di estrema destra. Poi la Paramount mi scelse per fare Mussolini e mi affacciai al balcone e fu fatta. Fui io ad affacciarmi per primo dopo Mussolini perché non davano il permesso a nessuno». I registi amano gli aneddoti, ma è imperdibile il leggendario racconto di Castellari che picchia gli attori. «Se un attore è intelligente arrivi a ragionare, ma se è stupido, come fai? Tutto cominciò da un ragazzotto che in un western doveva avere un primo piano. Mi sono stancato, dice. A morè falla finita, gli dico io. Lui si è offeso non si presenta a girare ed è stato allora che sono andato a «prelevarlo». ma la leggenda l’ha creata Lucio Fulci che era sempre un po’ malaticcio ed era il suo sogno picchiare gli attori. ’Per noi registi sei un mito’ mi disse Fulci. Per quanto mi riguarda, io odio l’horror e sono contento di aver dato a Lucio Fulci la possibilità di fare Zombie. Al contrario della sua fama di «picchiatore» (ma sappiamo che perfino Charles Bronson provò un senso di inadeguatezza nel confrontare i muscoli), boxeur professionista che dopo una giornata sul set è sempre andato ad allenarsi per almeno due o tre ore sul quadrato o al sacco, è sempre assai disponibile al contrario di molti suoi colleghi, con attori e maestranze. Fin dal momento della lettura di un copione, accetta suggerimenti di tutti («spesso l’attore ha ragione» dice, «quando un macchinista suggerisce un carrello è un regalo, i suggerimenti non diminuiscono un regista»). Tutto il cast si sente protetto da quel dialogo continuo. Il documentario di Fabio Segatori racconta i suoi trucchi del mestiere e Castellari spiega come il cinema di un tempo si faceva anche senza soldi e lo invita a raccontare l’invenzione dello squalo bianco: «Il cinema è un’industria, se un film andava bene subito se ne facevano due o tre sequel, ma i produttori mettevano meno soldi. Quando il sogno di tutti era comparire verso il quarantovesimo posto nella classifica di Variety, io mi trovavo al quinto posto con l’Ultimo squalo. Lo facciamo dopo lo Squalo 2 e quando uscì, nella sola zona di Los Angeles incassò nel primo week end due milioni e 200 mila dollari. Ma il successo di questo filmetto italiano uscito in lingua spagnola come Tiburon 3, proprio mentre la Universal stava preparando Squalo 3 ha creato problemi, hanno cercato di bloccare il film e a Los Angeles ci sono riusciti quando già aveva incassato 18 milioni di dollari. Avevo fatto Il cacciatore di squali con Franco Nero nei Caraibi, con 27 squali veri. Ci sono solo due o tre posti dove gli squali si fermano, perché devono sempre andare avanti, uno è Cancun e un’altra è una grotta in Australia. In genere per filmare uno squalo lo trascinano con un guinzaglio e lo stuntman ha una sacca di sangue davanti che a un certo punto si squarcia. Ma in queste condizioni gli squali non durano tanto così provammo a fare un modellino. Scegliemmo materiale di repertorio (squali che mordono, che attaccano ecc.) e poiché in quel periodo si facevano i Giochi senza frontiere, abbiamo chiesto a uno dei costruttori dei giochi di fare il modello dello squalo e lo ha costruito identico. A Malta c’è una piscina di 120 metri da cui puoi vedere il mare, come si usa oggi (senza quella piscina non avrei mai potuto farlo). Lo squalo finto – era di dodici metri – è stato posizionato in una fossa sott’acqua con dei tubi a pressione. Poi si ruppe perché nella scena finale avevamo messo 500 chili di carne legata a una catena e lui li trascina via con tutto il pontile. E sopra il pontile c’erano le comparse ed è per quello che hanno l’aria veramente spaventata. E poi il cattivo arriva con l’elicottero e volevo una ripresa da sopra che alla fine ho fatto io stesso sporgendomi dal finestrino, anche se soffro di vertigini. Ma quando sto con la macchina da presa non sento niente, ti dà coraggio perché il film è tuo».