La città è una nave che, per affrontare le insidie del mare, ha bisogno di piloti esperti: è la metafora sottesa al titolo del bel libro di Giuseppe Cambiano sul governo della città in Platone e Aristotele Come nave in tempesta, (Laterza, «Storia e Società», pp. 270, euro 24,00). Una metafora tradizionale nella cultura greca e ancora oggi silenziosamente depositata nei nostri termini «governo» e «governare» che, nel greco antico (kybernein), appartenevano al lessico marinaro. Come accade alle buone metafore, è un’immagine che costruisce un quadro concettuale entro cui pensare e farsi domande: che qualità deve possedere il pilota/governante «esperto»? Esiste una «scienza» o una «tecnica» del pilotare/governare? Come gestire i conflitti, esterni e interni, alla nave/città?

Emergono intorno a queste domande questioni cruciali della riflessione politica antica e moderna, che Cambiano mette a fuoco attraverso l’analisi delle posizioni di Platone e Aristotele senza appiattirle sull’attualità ma sempre inserendole nel loro specifico contesto. La questione centrale – tornata prepotentemente alla ribalta in questi giorni del dopo Brexit – riguarda il rapporto tra competenza ed esercizio del potere. Una questione difficile che Cambiano affronta a partire da un aspetto apparentemente secondario, quello della rotazione delle cariche, tipico della «democrazia» ateniese (nella quale, non va dimenticato, la partecipazione effettiva era riservata ai cittadini, liberi, maschi, adulti).

Il meccanismo della rotazione, intrecciato con quello del sorteggio, mirava a impedire la concentrazione del potere nelle mani di singoli o gruppi ostacolando così la riduzione della politica ad attività specializzata. Sia Platone sia Aristotele accettano nella sostanza questo principio declinandolo però in forme diverse, coerenti con la loro prospettiva generale. Nella città ideale di Platone, la rotazione riguarderà soltanto la classe dei governanti/filosofi e servirà, più che a impedire concentrazioni di potere, a «mitigare la costrizione a governare» cui sono soggetti i filosofi, consentendo loro di tornare a svolgere l’attività di ricerca del sapere. La celebre tesi platonica dei filosofi al potere, infatti, non va intesa in senso tecnocratico: i filosofi non sono (e non devono essere) politici di professione e anzi saranno governanti migliori proprio perché non desiderano governare. È invece nel Politico che Platone delinea il concetto di scienza (episteme) specificamente politica il cui possesso (che nella linea socratico-platonica implica anche possesso di virtù) legittima un esercizio del potere anche indipendentemente dal consenso dei governati. Proprio questo è il punto di massima divergenza tra Platone e Aristotele. La posizione platonica, secondo Aristotele, sarebbe accettabile solo a patto di annullare la differenza tra la sfera dell’oikos (casa) – dove resta ammissibile il dominio permanente di uno solo su figli, donne e schiavi (equiparati a possessi materiali) – e la sfera della polis composta invece da individui in linea di principio simili tra loro (homoioi) e liberi.

La rotazione delle cariche consente allora di mantenere l’equilibrio tra governare ed essere governati, ruoli che un buon cittadino deve sapere alternativamente ricoprire, perché entrambi necessari al buon funzionamento della polis. È anche vero, però, che Aristotele stesso prevede l’opportunità di correttivi (per lo più su base censitaria) che regolino il meccanismo della rotazione e limitino (o evitino del tutto) il ricorso al sorteggio. Riemerge così, anche nell’orizzonte di una comunità di simili, la questione del rapporto tra competenza, virtù ed esercizio del potere.

Per Aristotele, la qualità specifica del buon governante non è il possesso di una presunta scienza (episteme) politica ma la difficile virtù della phronesis, consistente essenzialmente nella capacità di valutare (e deliberare) caso per caso con una particolare sensibilità per le circostanze. Il discrimine tra Platone e Aristotele sta dunque – Cambiano non lo esplicita ma è utile farlo – nel fatto che per Aristotele il dominio delle scelte politiche rientra a pieno a titolo nell’ambito di ciò che può essere diversamente da com’è rispetto al quale non può darsi una scienza in senso stretto. È il dominio di ciò che è intrinsecamente discutibile nel quale divergenze e conflitti sono inevitabili e non risolvibili con il semplice ricorso alle «competenze».

A ben guardare, la vera posta in gioco è proprio la questione del conflitto o, meglio, il bisogno di evitare il conflitto interno alla città (la «guerra civile») che i greci chiamavano stasis, qualcosa di molto diverso dal polemos, che era invece la guerra contro i nemici «esterni», i «barbari» innanzitutto. Mentre la stasis era percepita come il pericolo peggiore per una polis (per Platone una vera e propria malattia che sovverte l’ordine naturale) da evitare a tutti i costi, il polemos, per quanto deprecabile, era invece in generale ritenuto come un male inevitabile e per certi aspetti addirittura «naturale», il che però non significa automaticamente «giusto». Il compito principale del bravo pilota di questa nave in tempesta è dunque quello di impedire (o almeno ridurre al minimo) la stasis – questa terribile malattia della polis – garantendo homonoia (concordia) e philia (amicizia) tra i cittadini. Di nuovo su questo punto però le posizioni di Platone e Aristotele divergono: mentre per il primo l’unico antidoto ai conflitti interni è la piena condivisione delle emozioni e l’eliminazione della sfera del privato (fonte primaria del conflitto stesso), per Aristotele, invece, la comunanza di affetti e di beni rappresenta anzi un ostacolo alla realizzazione dei legami di amicizia. Ai suoi occhi, il Socrate della Repubblica commette l’errore di voler «trasformare una symphonia in una homophonia, un insieme coordinato e armonico di suoni in un solo identico suono».

Vera homonoia per Aristotele non è, infatti, l’identità delle opinioni ma una convergenza di interessi e desideri che può essere solo in parte raggiunta grazie all’educazione (paideia) ma mai pienamente realizzabile perché «infinita è la natura del desiderio».

In questo quadro, Cambiano affronta anche un altro aspetto spinoso del pensiero politico antico, quello della schiavitù, ricostruendo con equilibrio e acutezza argomentativa il dibattito tra Aristotele e gli «oppositori anonimi» della schiavitù, un dibattito che si intreccia con quello, non meno complesso, del rapporto tra nomos (legge), physis (natura) e giustizia. La principale difficoltà che Aristotele incontra nella sua giustificazione della schiavitù riguarda il corpo dello schiavo, in tutto e per tutto identico a quello del libero. Questa identità mette in crisi l’idea di una differenza naturale tra liberi e schiavi e fa venire alla luce tutta la difficoltà della stessa nozione di legge naturale.

Al di là delle singole interpretazioni (che riguardano anche altri temi, come il rapporto tra catastrofi naturali e storia umana o il ruolo dell’alimentazione) il libro è interessante innanzitutto perché non ci consegna una visione idilliaca o romantica del pensiero politico greco ma ne fa emergere difficoltà e contraddizioni, che non sono poi così lontane dalle nostre stesse difficoltà e contraddizioni. A completare questo quadro avrebbe forse potuto contribuire anche una maggiore attenzione al ruolo della retorica nella conduzione di questa nave in tempesta, non fosse altro perché è proprio la retorica, agli occhi di un greco di quell’epoca, l’arte più vicina a quella del governare le navi.