Alla fatidica domanda di papà Cupiello «te piace o’ presepio?» Maurizio Bettini avrebbe risposto con un netto sì. L’ultimo libro del noto filologo, scrittore e giornalista non lascia dubbi: Il presepio Antropologia e storia della cultura (Einaudi «Frontiere», pp. 192, euro 19,00) è un saggio rigoroso ma anche un atto d’amore nei confronti di una tradizione fortemente radicata nel nostro costume.

Anche un laico, anche chi – come confessa l’autore – da decenni ha interrotto l’antico rito familiare, non può non provare nostalgia per quella «finzione fragile» e «incantevole». Scriverne, dice, «è stato un po’ come tornare a farlo. Quasi un atto riparatore, dunque, e insieme il tentativo di «manifestare fedeltà» al se stesso di prima: al «bambino che ancora abita in me», avrebbe detto l’autore del Piccolo Principe.

Il filologo sfodera gli acuminati ferri del mestiere. Dei testi evangelici è messa a fuoco la non perfetta coincidenza sulle circostanze della Natività. Della stella parla Matteo, ma non Luca, della mangiatoia Luca ma non Matteo. Della grotta, e soprattutto del bue e dell’asinello, nessuno dei due. Ecco allora che Bettini dipana per noi la complessa questione della formazione dell’iconografia tradizionale. La grotta, ci spiega, la troviamo citata dal Protovangelo di Giacomo (II secolo d.C.) e anche dall’apologeta Giustino; e a Betlemme già dal II-III secolo si era creata una topografia della natività a uso dei pellegrini, ai quali veniva mostrata la ‘vera’ grotta, completa di ‘vera’ mangiatoia. Ma perché una grotta? Solo perché le mangiatoie stanno nelle stalle e le stalle sono spesso delle grotte? No, il filologo, che è anche un antropologo, ci ricorda che la grotta è un luogo che in varie culture è associato alla nascita e/o al culto di una divinità: tra gli altri, Mitra, Adone, Dioniso, Ermes, lo stesso Zeus. Degli ultimi tre, poi, si dice che furono deposti in un líknon, sorta di canestro che serviva a vagliare il grano. L’analogia con la mangiatoia di Gesù è evidente. Del resto, ceste o altri singolari contenitori figurano spesso nei racconti leggendari relativi all’infanzia di personaggi eccezionali, come Mosé, Romolo e Remo, Cipselo, e perfino papa Gregorio Magno. C’è di più: Zeus, dopo la nascita in una grotta del monte Ida, fu accudito da una capra e un’ape. Quindi anche la presenza di due animali accanto alla mangiatoia del Salvatore è anticipata dal mito classico. Il racconto della nascita di Gesù ha in verità molto in comune con tante altre storie di bambini meravigliosi, deposti in strani recipienti e protetti da animali caritatevoli.

Ma perché a Gesù toccarono un bue e un asino? Come mai a un certo punto comparvero accanto a lui queste figure che né Luca né Matteo nominano mai? Potrebbe trattarsi di un banale desiderio di realismo, o della persistenza di un antico modello culturale. Ma queste spiegazioni non bastano al nostro autore, che da filologo e antropologo si fa anche un po’ teologo. O meglio, ci fa considerare la questione dal punto di vista di un teologo dei primi secoli del cristianesimo, Origene, che leggeva le Scritture in chiave allegorica. Non aveva detto Isaia «il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone»? Per il principio della ‘risonanza’ scritturale era logico mettere in relazione la mangiatoia di Betlemme con quella di Isaia. E dato che Isaia affermava che a riconoscere la mangiatoia del padrone era l’asino, non il bue, per Origene il senso era chiaro: il bue, animale puro che simboleggia il popolo di Israele, non aveva riconosciuto il Messia; l’asino, animale impuro che simboleggia i Gentili, sì. Il bue e l’asino, insomma, non fanno concretamente parte della vicenda, stanno lì per farci vedere nella mangiatoia il segno dal quale tutti dobbiamo riconoscere il nostro Signore.

Bettini ha molto da dire anche sugli altri attori – i Magi e i pastori – che affollano i nostri presepi, così diversi dal primo, quello che Francesco creò a Greccio nel natale del 1223, che aveva solo la mangiatoia, il bue e l’asinello. Si capisce che gli piacciono davvero quelle ingenue statuine, ama tirarle fuori dalle scatole della sua «memoria presepiale» e passarle in rivista. Ne apprezza – nei presepi d’epoca – il valore documentario, etnografico; ma non si ritrova in quei presepi incongruamente pletorici in cui «la massaia si reca dall’arrotino per poi fermarsi a litigare con l’acquaiola». Considera abusiva l’inserzione forzata nell’acronia del presepe classico di quei personaggi della cronaca contemporanea che si propongono chiassosamente dalle vetrine di San Gregorio Armeno. Lui preferisce quelle immaginette che più discretamente presentificano un’assenza, e che attraverso l’adesione al rito perpetuano un patto di fedeltà. E il rito, per essere significante, deve svolgersi e concludersi in un periodo prefissato. Un presepe perennemente esposto in un museo è, a ben vedere, un controsenso. Il presepe, ha detto uno scrittore (napoletano ça va sans dire), «è bello quando lo fai» – che poi à la stessa cosa – «quando lo pensi». Bettini, credo, sarebbe d’accordo.