Non sarà facile dimostrare quale fosse la reale funzione – logistica o di intelligence – degli ufficiali russi sbarcati a Bergamo nel marzo del 2020 in piena crisi pandemica. Più trasparente, se così si può dire, è stato l’obiettivo dell’operazione «Sputnik», altro canale aperto tra Mosca e Roma grazie a un abile utilizzo dell’emergenza pandemica: spaccare la strategia europea sui vaccini, portando ogni Stato a muoversi per conto proprio su Sputnik e forse anche su altri fronti. Invece di negoziare con l’Unione europea, i ricercatori russi provarono ad aggirare l’Agenzia europea del Farmaco (Ema), inviando la richiesta di autorizzazione dello Sputnik alla Heads of Medicines Agencies, l’organismo che riunisce le singole agenzie regolatorie nazionali che vigilano sui farmaci.

Che non si trattò di un errore, lo ha confermato in un’intervista a Emanuele Bonaccorsi e Claudio Marciano lo stesso Alexander Leonidovich Gintsburg, direttore dell’Istituto Gamaleya di Mosca che ha messo a punto il vaccino Sputnik: «Per ottenere il risultato finale – entrare nel mercato internazionale e fornire lo Sputnik V alla popolazione egli Stati europei – è molto più efficace muoversi con contatti bilaterali, invece che relazionarsi con quegli organi sovrastrutturali che sono rappresentati dall’apparato burocratico e dalle agenzie regolatorie».

SE L’OBIETTIVO di Gintsburg fosse stato raggiunto, la fragile alleanza europea sui vaccini basata sull’Ema e sugli acquisti congiunti sarebbe andata in pezzi. Con la conseguenza duplice di avvicinare a Mosca alcuni governi-chiave e di inasprire la concorrenza (e alzare il prezzo a favore delle corporation) per procurarsi i vaccini.
L’operazione è riuscita in parte. Solo Ungheria e Slovacchia hanno acquistato dosi del vaccino russo, e Mosca ha dovuto rassegnarsi a cercare l’autorizzazione al commercio all’Ema. Ma le informazioni lacunose inviate da Mosca hanno rallentato la valutazione e a oggi l’agenzia non si è ancora espressa. Prima i problemi di sicurezza dei vaccini adenovirali AstraZeneca e Johnson & Johnson (assai simili allo Sputnik), poi le sanzioni scattate contro la Russia rendono assai improbabile lo sblocco del dossier.

L’ASSALTO DI SPUTNIK all’Ue però è andato vicino al successo. Il vaccino ha trovato alleati insperati in molti paesi europei esterni al gruppo di Visegrad. Austria e Repubblica Ceca hanno inizialmente aperto alla possibilità di autorizzare a livello nazionale il vaccino russo, prima di riallinearsi al resto dell’Unione in attesa di un parere Ema. Potenze come Francia e Germania si erano dette pronte a acquistare il vaccino russo al di fuori degli accordi europei per gli acquisti congiunti adottati per tutti gli altri vaccini.

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E L’ITALIA? Che nel nostro paese abbiano operato parecchie «brigate russe» non è un mistero. Il gemellaggio tra Lega e il partito di Putin «Russia Unita» è stato a lungo rivendicato dallo stesso Salvini. Proprio un anno fa, quando le forniture degli altri vaccini arrivavano a singhiozzo, il leader leghista fece pressione sull’Ema affinché approvasse quello russo, guadagnandosi anche il ringraziamento pubblico del fondo sovrano russo Rdif che gestisce il vaccino. Salvini era andato anche oltre: «Se San Marino guarda alla Russia fa bene» disse. «Dovremmo fare altrettanto», cioè autorizzare lo Sputnik senza attendere l’Ema. Berlusconi, più avvezzo al linguaggio pubblicitario, si limitò a un «Sputnik funziona benissimo».

L’AIUTO AL PIANO anti-europeo però arrivò anche da settori insospettabili. Lo stesso Mario Draghi aprì all’idea di far da soli: «Se l’Ue prosegue su Sputnik bene, altrimenti si procederà in un altro modo» disse nella primissima conferenza stampa a Palazzo Chigi. Anche diverse Regioni si attivarono. La Lombardia tentò di portare in Brianza la produzione, il Veneto e la Campania provarono a comprarne le dosi. Ma a darsi da fare più di tutti per Sputnik fu il Lazio governato da Nicola Zingaretti. Il suo assessore alla sanità Alessio D’Amato chiese dapprima all’Aifa di autorizzare il vaccino per l’Italia senza attendere l’Ema. Poi parlò di «un accordo tecnico-scientifico» che riguardava «il trasferimento delle tecnologie nel Lazio per la produzione di questo vaccino». Infine, il 13 aprile annunciò un «memorandum» tra regione, Gamaleya e Istituto per le Malattie Infettive «Spallanzani» per la cooperazione in ambito scientifico sul vaccino Sputnik V.

LO «SPALLANZANI» è stato il principale sponsor scientifico dello Sputnik in Italia: ancora pochi giorni prima dell’inizio della crisi ucraina, una ricerca congiunta tra Spallanzani e Gamaleya parlava del booster con il vaccino russo come dell’«approccio più efficace» contro la pandemia.
Anche se la collaborazione è stata sospesa con l’avvio delle sanzioni, a Mosca il brand Spallanzani torna ancora utile. Nell’unica comunicazione del fondo russo Rdif dall’inizio del conflitto, la sola istituzione scientifica straniera citata per difendere il proprio operato scientifico è stato proprio l’istituto Spallanzani, i cui ricercatori avrebbero mostrato che «il vaccino Sputnik V ha dato i migliori risultati contro la variante Omicron, facendo meglio del vaccino Pfizer».

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Nonostante il frettoloso dietrofront della regione e dello Spallanzani, il canale aperto con Mosca ora rischia di costare carissimo all’assessore D’Amato e al direttore ad interim dello Spallanzani Francesco Vaia. Le inchieste giornalistiche (ultime quelle del Corriere della Sera) adombrano un collegamento tra la presenza dei servizi russi a Bergamo e la collaborazione italo-russa su Sputnik. Che le due vicende abbiano un legame rimane da dimostrare. Ma il sospetto non lascia tranquilli D’Amato e Vaia: il primo è lanciatissimo alla successione di Zingaretti alla regione, il secondo è in corsa per assumere a pieno titolo la direzione del prestigioso «Spallanzani». Con le bombe russe che piovono sull’Ucraina, entrambe le poltrone ora diventano caldissime.