Quando l’offensiva fallisce, ritirarsi. Durante la ritirata, lanciare attacchi contro le retrovie dell’avversario, così da indebolirlo in vista della ripresa delle ostilità. Rilanciare l’offensiva una volta che l’avversario sia isolato e esso stesso in fase di ritirata. Se c’è un disegno politico-egemonico complessivo dietro l’attuale offensiva restauratrice in America Latina – e c’è poco da dubitarne – i suoi architetti sembrano imbevuti della strategia della guerriglia maoista. E l’offensiva delle destre si combina con le debolezze del ciclo progressista.

Falliti uno dopo l’altro gli attacchi frontali ai governi popolari del subcontinente – tentativi di colpo di Stato in Venezuela (2002), Bolivia (2008), Ecuador (2010) – si è assistito ad un progressivo cambio di strategia da parte delle oligarchie dominanti. Mentre il ciclo progressista stava vivendo ancora una stagione di stabilità, il primo a cadere fu il governo dell’Honduras guidato da Manuel Zelaya, eletto su posizioni liberali ma progressivamente avvicinatosi al chavismo. Una congiura di palazzo incruenta, ma seguita da una brutale repressione contro gli attivisti sociali e ambientalisti che dura tutt’oggi. Fu poi la volta della deposizione del Presidente paraguayano Fernando Lugo, reo di non aver appoggiato il soffocamento nel sangue del movimento contadino di occupazione delle terre, e perciò estromesso con una manovra parlamentare del tutto incurante delle procedure costituzionali.

Da quando l’onda lunga della grande crisi ha iniziato a colpire il subcontinente, le oligarchie si sono sentite abbastanza forti da riprendere l’offensiva in grande stile contro il quartier generale. Appena rieletta alla presidenza del Brasile, contro Dilma Roussef è stato messo in moto il macchinario dell’impeachment che ha portato alla sua destituzione, ad opera di uno schieramento alternativo raccogliticcio, e omogeneizzato solo da un grado si corruzione ben superiore (e documentato) rispetto a quello che si imputa al Partido dos Trabalhadores.

Nel frattempo, mentre il Venezuela del dopo-Chavez è destabilizzato da mai sopiti intenti golpisti e dal boicottaggio economico, ed ora isolato politicamente all’interno del Mercosur, in Argentina si sta attuando una restaurazione «postuma e preventiva» (così Angelo Tasca definì il fascismo): alla vittoria nelle urne del neo-liberale Mauricio Macri ha fatto seguito l’arresto dell’attivista dei diritti sociali Milagro Sala, la cacciata di Victor Hugo Morales (voce storica delle telecronache del futbol) dalla radio che ne ospitava i programmi e (è cronaca di questi giorni) l’incriminazione di Hebe de Bonafini, leader delle Madres de Plaza de Mayo e simbolo vivente delle vene aperte dell’America Latina. Con una misura che evoca sinistri ricordi, Macri ha inoltre annunciato il varo di una legge che permetterà l’impiego dell’esercito per garantire “l’ordine interno”.

Ma sia in Brasile che in Argentina i veri bersagli delle forze della restaurazione rimangono Lula e Cristina Fernandez de Kirchner, gli ex-Presidenti dotati del carisma e la credibilità necessari per riaprire la partita nei due Paesi. E perciò finiti nel mirino di indagini giudiziarie “a orologeria”: il primo in base ad una semplice delazione; la seconda per “alto tradimento” (un reato previsto solo in caso di guerra) per il presunto depistaggio delle indagini sull’attentato alla mutua israelitica Amia del 1994.

L’offensiva su vasta scala della destra cade in un momento non facile per i governi bolivariani e neo-populisti dell’America Latina (giova ricordare che in Bolivia Evo Morales ha perduto il referendum attorno alla sua rielezione, mentre in Ecuador Rafael Correa galleggia dopo una netta virata verso il centro). E’ dunque il caso di interrogarsi anche sulle ragioni di questa crisi, sia di quelle generali (eccessivo affidamento, nella fase di auge dei governi progressisti, sugli alti prezzi delle materie prime e sul volano delle esportazioni verso la Cina, rallentate con la crisi), sia di quelle proprie di ciascuna realtà nazionale (mancata riforma di un sistema politico ingovernabile come quello brasiliano, ambiguità del peronismo argentino, divorzio tra Revolucion Ciudadana e movimenti popolari in Ecuador, perdita della bussola del movimento bolivariano in Venezuela dopo la scomparsa di Chavez, tanto per fare alcuni esempi).

Tuttavia questi limiti ed errori non devono far perdere di vista la vastità della reazione in atto, e l’importanza delle questioni sul tappeto. Al centro delle quali c’è, in ultima istanza, la volontà da parte delle élites tradizionali di normalizzare un percorso che aveva portato ad un seppur precario riequilibrio dei rapporti tra collettività e mercato, tra capitale e democrazia, e tra Nord e Sud del mondo. Non a caso l’apparato massmediatico, che in tutte le realtà continentali vive di una particolare subordinazione agli interessi elitisti, è impegnato su una campagna di identificazione tra militanza politica e opportunismo, interventismo statale in economia e corruzione, mentre la corruzione di proporzioni incalcolabili degli interessi privati dell’oligarchia è trattata tutt’al più come un fenomeno epidermico e fisiologico.

Sotto attacco c’è la politica, il suo status di asse centrale della convivenza tra i cittadini, la sua autonomia da poteri formatisi in una sfera esteriore a quella della volontà popolare, la possibilità che attraverso di essa vengano messi in campo processi organici di trasformazione ed emancipazione.

Contro le presunte “tendenze totalitarie” di chi si oppone all’unica libertà tollerata, quella del mercato, il mantra, che noi europei conosciamo bene, è quello della costruzione di un sistema di partiti che “condividano i principali valori”, cioè che competano attorno alle questioni accessorie, mentre il centro dell’agone è saldamente occupato dal mercato.

Il movimento popolare del vecchio continente dovrebbe tenere ben viva l’attenzione su quanto succede in America Latina. Non solo per un vecchio e sano abito internazionalista. Ma anche perché quanto avviene costituisce il nostro de te fabula narratur, e far finta di niente sarebbe un grave errore.