Sono in pochi a conoscere le vicende di Taranto come Roberto Nistri. Classe ’47, professore di Storia e Filosofia, scrittore, saggista, editorialista e direttore di svariate riviste culturali. Negli ultimi anni ha redatto una monumentale opera sulla storia contemporanea della città dei Due Mari.

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Inevitabile partire dall’argomento più scottante, l’Ilva, l’inquinamento: una città che ha patito la monocultura industriale a partire dalla fine dell’800 con l’Arsenale Militare.

Taranto mi appare come la città descritta nel romanzo di Stephen King, The Dome: siamo sotto una cupola, dove nessuno entra e nessuno esce. Siamo tutti in attesa di un qualcosa. Un’altra immagine potrebbe essere quella del film Jango, dove il protagonista porta la propria bara sempre con sé. Taranto non è un’anomalia nel’Italia inquinata, è più una singolarità. Soffre di un inquinamento stratificato per decenni. Un secolo e oltre di devastazioni ambientali, dovute all’industria monoculturale (prima navalmeccanica e poi siderurgica). Manca la capacità di guardare oltre, soprattutto da parte dello Stato e dell’Unione Europea che fanno difetto nel pensare e proporre soluzioni per il dopo Ilva.

Eppure, Taranto ha vissuto anni di grande fermento culturale.

Indubbiamente, specie negli anni ’60 e nei primi ’70. Basti ricordare il «premio letterario Taranto» all’epoca ambitissimo: nella giuria c’era Ungaretti e vi parteciparono Gadda e Pasolini; nel concorso per il monumento a Paisiello, giunsero scultori d’avanguardia come Franchina e Consagra. Poi, con l’avvento del siderurgico, è iniziato anche l’avvelenamento culturale.

Indubbie le responsabilità della politica e di una vera classe dirigente che è sempre mancata.

Una nuova classe politica e dirigente è difficile da trovare. Qui continuano a esserci micro tribù impermeabili. E non ci sono cavalieri senza macchia e senza lode che si nascondono nell’ombra a cui affidarsi. A Taranto è sempre mancata una classe dirigente. Ha governato prima la Chiesa, poi l’Ammiragliato e poi il padrone delle ferriere. Il ruolo del municipio è sempre stato quello di compensatore: ma nonostante alcuni grandi finanziamenti da parte dello Stato e dell’Europa (come per l’Arsenale o il Piano Urban negli anni 2000), non ci sono stati risultati tangibili o miglioramenti significativi. Il Comune è sempre stato un collettore di piccoli bisogni e un distributore a pioggia, quando ci sono le risorse, per microclientele atte a soddisfare i loro interessi. È una formazione mentale dovuta alla monocultura industriale che non prevede alternative.

Per non parlare delle divisioni nella società civile.

Ci sarà una fase di dispersione e di riunioni, ci sono in giro tanti bravi ma rancorosi ambientalisti. Si prospetta una coazione a ripetere: si fa un po’ di moina per poi tornare nel torpore. Una specie di dispositivo «Macondo»: arriva la bananiera, si fa festa ma poi, alla fine, restano solo i rottami.

Dunque, come se ne esce?

In qualche misura per uscirne pagheremo dazio. Ma poi, è così sicuro che se ne esce? Abbiamo la convinzione che ci sia sempre da qualche parte una porticina misteriosa che ci faccia affacciare in un altrove migliore. Il peccato originale resta sempre la grande industria. Prima o poi non ci sarà più. Il siderurgico è una realtà nata vecchia. «La più vecchia del mondo nuovo» disse qualcuno. Un ciclo produttivo e integrale che non è reperibile in nessuna parte di Europa. Siamo in cul de sac. Dove non puoi promettere cose che non puoi mantenere.

Il futuro si costruisce comunque guardando altrove.

Bisogna ragionare sulla rivalutazione delle piazze, delle periferie, dell’habitat cittadino. La rappresentazione figurativa, dai fumetti al teatro, la buona creatività, nascono soprattutto nei momenti più difficili. È una forma di combattività e in questo Taranto potrebbe essere un buon laboratorio di idee e progetti. Credo molto nell’esperienza delle periferie: è da lì che bisogna ripartire. I giovani devono potersi muovere, devono poter fare. Bisogna puntare sulla nostra riconoscibilità: Taranto una volta era riconoscibile. Se riuscissimo a introdurre qualcosa in questa direzione, potremmo farcela.