Un titolo che mette insieme socialismo e futuro dell’Europa potrebbe suonare poco appealing, o al massimo avere un fascino vintage. Ben si sarebbe prestato, qualche decennio fa, a campeggiare sulla copertina di uno di quei libri che i leader socialdemocratici mandavano periodicamente in libreria, a supporto delle loro ambizioni politiche, contribuendo ad alimentare, nei mesi seguenti, il ciclo delle rese. Ci auguriamo che ciò non avvenga con Il socialismo e il futuro dell’Europa (Meltemi, pp. 205, euro 18) di Bruno Karsenti e Cyril Lemieux. I due autori, che si muovono con originalità nell’ambito, rispettivamente, della filosofia politica e della sociologia, non ci presentano, infatti, la rituale invocazione all’Europa come generico e provvidenziale rimedio a tutti i mali, né si esercitano per tracciare l’ennesima fantomatica «terza via» che permetterebbe di conciliare magicamente incremento dei profitti privati e coesione sociale.

DIVERSAMENTE, al volume in questione deve essere riconosciuto il coraggio di nominare, in positivo, un’alternativa al neoliberismo, il socialismo. Per definirla, i due autori guardano non tanto alla tradizione marxista, nelle sue varianti, quanto a un filone politico-culturale tipicamente francese, di ascendenza saint-simoniana, che culmina in Émile Durkheim e Marcel Mauss incentrandosi sulla relazione circolare fra socialismo-sociologia. Se la sociologia si caratterizzerebbe per una intrinseca vocazione socialista, il socialismo necessiterebbe dell’approccio scientifico offerto dalla sociologia.

Schematizzando, per Kersenti e Lemieux discipline come l’economia, la psicologia e il diritto avrebbero un carattere paradigmaticamente liberale, in quanto presuppongono l’individuo come unità empirica data e autoevidente. Differentemente, la sociologia assumerebbe come livello analitico la dimensione sociale, contribuendo a una conoscenza obiettiva delle dinamiche collettive e a una denaturalizzazione delle relazioni di dominio e delle istituzioni. Si tratta di un lavoro critico a cui il marxismo ha contribuito, manifestando però, a parere di Karsenti e Lemieux, una strutturale incomprensione sociologica dello stato e della divisione del lavoro.

DA QUI L’OPZIONE a favore di una prospettiva durkheimiana, che permetterebbe da una parte di assumere lo stato come articolazione e organo della società, smarcandosi dalla sua reificazione, dall’altra di cogliere nella divisione del lavoro un tratto non contingente ma strutturale della modernità e nel socialismo la proposta politica in grado di fornire risposte in termini di integrazione sociale alle sue «patologie».

L’OBIETTIVO è la costruzione di un socialismo democratico, ove per democratico non si intende semplicemente la presenza di elezioni e istituzioni rappresentative ma il coinvolgimento e il protagonismo nei processi decisionali e nelle pratiche di governo dei corpi organizzati della società. Si tratta, in sostanza, di un rilancio dell’ipotesi corporativa di Durkheim, alla ricerca di un’istanza intermedia, portatrice di concretezza e radicamento sociale, fra le astrazioni dello stato e dell’individuo.

Ma non è solo la tradizione francese a ispirare gli autori di Il socialismo e il futuro dell’Europa. Un riferimento fondamentale è costituito da Carl Polanyi e dalla sua critica del mercato disembedded, ossia autonomizzato da ogni vincolo sociale e in grado di imporre la propria logica, quella del profitto, all’intera società. Si tratta di un modalità organizzativa che, a parere del teorico ungherese, risulta socialmente insostenibile, specie quando a essere mercificate sono il lavoro, la terra e la moneta. A fronte di tale sfida il cosiddetto embedded liberalism del fordismo, in particolare con trasformazione del lavoro da merce a statuto, ha rappresentato per alcuni decenni una risposta. Ma si tratta di un’epoca ormai tramontata.

In presenza di un mercato sempre più autonomo e in grado di imporre la propria legge, la politica socialista, secondo Karsenti e Lemieux deve puntare sulla nazione. Questa, deve essere sottratta alla reificazione basata su fantomatiche identità originarie che, unitamente alla sua statalizzazione, connota il sovranismo reazionario.

PER FARLO deve essere intesa sociologicamente, sulla scia di Marcel Mauss, come unità sociale di riferimento, per non cadere nell’astrattezza del cosmopolitismo, in una prospettiva però espansiva che guardi alla costruzione di una nazione europea i cui vettori principali sono individuati nell’acquisizione da parte delle élite di sinistra di una sensibilità culturale sociologica, nell’espansione dell’istruzione, nel protagonismo dei movimenti ecologisti.

Diverse sono le perplessità che l’approccio di Kersenti e Lemieux può suscitare. Le troviamo in gran parte esposte nella postfazione di Maurizio Ricciardi che, come una sorta di controcanto, conclude il volume. Un primo interrogativo riguarda una presenza che nel libro spicca per la sua assenza, cioè Pierre Bourdieu. Si potrebbe notare come l’assimilazione di sociologia e socialismo ben si coniughi con la valenza politica che Bourdieu attribuiva alla scientificità sociologica. Anche l’enfasi sull’esigenza di denaturalizzare il mondo sociale accomuna le due prospettive. Emerge però anche uno scarto, relativo al ruolo del conflitto. Lo si coglie con chiarezza se si considera il ruolo chiave, in termini politici, che Karsenti e Lemieux affidano all’istruzione, vista come il principale fattore emancipatorio in quanto motore di una crescente riflessività sociale.

ALL’OTTIMISMO da république des instituteur, si potrebbe obiettare chiamando in causa gli studi di Bourdieu sul sistema educativo come dispositivo per la riproduzione delle differenze sociali e delle gerarchie di classe. Inoltre, proprio quell’embedded liberalism a cui si guarda come esempio di ripresa di controllo della società sul mercato, può senza dubbio essere posto in relazione a processi di accresciuta riflessività sociale, ma appare ancor più legato alla «guerra civile» che nei decenni del dopoguerra contamina ordine interno e internazionale e al protagonismo conflittuale di soggetti collettivi che, all’ombra delle rivoluzione, sono in grado di stabilire rapporti di forza a loro favorevoli.

Il crinale, quindi, sembra passare fra una concezione organicista, come quella durkheimiana, che affida al conflitto una funzione sintomatica, che invoca l’integrazione sociale, e una, differente, che gli affida un ruolo costituente. Da questo punto di vista, se affermare che la «politica è la continuazione della guerra con altri mezzi» è senza dubbio semplificatorio e fuorviante, si anche deve aggiungere che nel ribaltamento della formula di Clausewitz giace un nucleo di verità con cui è necessario sempre fare i conti.