L’obiettivo è «ridurre il rapporto debito/pil, dopo sette anni di crescita ininterrotta’». Non è precisamente una novità. Dai tempi dell’esecutivo guidato da Mario Monti, grande celebratore della «’cultura della stabilità’» patrocinata già da Ciampi, la riduzione del debito pubblico rimane sempre l’obiettivo sperato, promesso ed auspicato. Raggiunto, mai.

Adesso il ministero dell’Economia ha diffuso le Linee guida per la gestione del debito 2016, e in esse campeggia la promessa che nel 2016, finalmente, questo benedetto debito scenderà.

Sarà vero?

Ogni anno riparte la giostra del debito: lo Stato emette titoli di varia natura, prendendo soldi a prestito, e incassa; al contempo deve far fronte a quelli che, emessi precedentemente, vanno in scadenza: chi ha prestato all’erario pubblico deve essere pagato, insomma; e qui lo Stato invece deve pagare. Per cui calcolando la differenza fra dare e avere dovrebbe essere possibile capire se il debito scenderà o salirà.

Ma l’Italia come se l’è cavata finora in questo giochetto?

A giudicare dai risultati… non bene. È noto come il nostro paese presenti da decenni il più alto indebitamento del continente, raggiungendo già ai tempi del primo governo Berlusconi (1994) livelli prossimi al 120% del rapporto debito/pil.

Tale (poco) invidiabile primato è stato ultimamente insidiato dalla Grecia che nel 2015 viaggiava verso il 180% del rapporto debito Pil mentre l’Italia si assesta su un (po’) meno catastrofico 135%. E ancora oggi sopravanza Francia, Germania e Spagna tanto per l’emissione (chiediamo più soldi) quanto per i titoli in scadenza (paghiamo più di tutti).

Di quanto?

Sono attesi dallo Stato italiano 229 miliardi di emissioni di titoli (quanto chiederemo in prestito), contro i 247 del 2015; e si calcola che andranno pagati 184 miliardi rispetto ai 203 dell’anno scorso (rispetto a un debito totale di 2.211,8 miliardi a ottobre 2015).

Ma nel mondo della finanza le cose quasi mai vanno lisce.

Dai tempi del famoso divorzio Tesoro – Banca d’Italia del 1981, per cui quest’ultima gradualmente smise di comprare i titoli di rimasti invenduti, la finanza pubblica si trova completamente alla mercé dei mercati di capitali privati, senza alcun meccanismo che smorzi la necessità di rispondere ai meccanismi di domanda/offerta. Se gli investitori non trovano la remunerazione conveniente non si può che dare loro tassi più alti, altrimenti le aste vanno male. Per cui ogni evento che possa influenzare il loro comportamento (nuove bolle finanziarie che esplodono?) mette a rischio la tenuta finanziaria dello Stato.

In secondo luogo il debito è espresso tramite il rapporto fra esso e il Pil – in ragione del fatto che la stessa cifra incide di più o di meno a seconda della grandezza dell’economia che se la accolla – e se quest’ultimo non cresce o addirittura diminuisce il loro rapporto continua a rimanere stagnante o addirittura a peggiorare, vanificando le varie cure di restrizione della spesa che è divenuta il contrassegno più famoso della austerità europea.

Dato che questa ha dato risultati pessimi (oramai non osa difenderla quasi più nessuno) è scesa in campo la Bce, che ha iniziato a comprare titoli ma non direttamente dagli Stati, bensì da chi avendoli comprati li rivende.

Nei forzieri di banche, assicurazioni ecc. vengono quindi pompati 6-7 miliardi al mese (per quel che riguarda l’Italia) con l’obiettivo di far salire l’inflazione, far calare la redditività dei titoli, e stimolare la crescita.

Effettivamente il secondo fine è stato raggiunto, rendendo più economico agli Stati finanziarsi, ma il rilancio dell’economia ancora non c’è, per quanto si possa esultare per uno smilzo 0,8% (chi si contenta gode…).

Lo scetticismo espresso da Marco Bertorello su queste pagine sulla sostenibilità dell’interventismo delle banche centrali quindi sembra pienamente giustificato.