Con la guerra in Ucraina e il green new deal, il tema energia è entrato nelle case. L’energia fa parte della cosiddetta “economia fondamentale”, è la precondizione necessaria per le nostre routine giornaliere, processi produttivi, modello di civiltà.

Nel corso dell’evoluzione umana, il cambiamento del rapporto uomo/energia si è sempre associato a transizioni di fase nei modelli produttivi, sociali e politici. Oggi la democratizzazione dell’energia, della sua produzione e distribuzione, è il correlato necessario per dare alla “transizione energetica” una curvatura politica che coniughi giustizia sociale e giustizia ambientale. Proprio per questa ragione, le Comunità energetiche rinnovabili (Cer) rappresentano una potenziale rivoluzione sistemica.

Una Cer è costituita da una rete di consumatori e produttori, organizzati all’interno di un soggetto giuridico, che vogliono produrre e scambiare energia elettrica in un territorio delimitato dall’appartenenza alle stesse cabine primarie di alta tensione.
Dopo alcuni anni di attesa e consultazioni sono ormai imminenti i decreti attuativi da parte del Governo, la cui bozza è stata inviata a Bruxelles per un parere.

Purtroppo ma non sorprendentemente, la bozza governativa prefigura regole che penalizzano chi non ha capacità di spesa o di indebitamento e apre invece le porte a investitori privati lontani dal territorio e che si muovono secondo una logica di puro business. Una sorta di condanna per chi, Enti, singoli cittadini o comunità, si trova impossibilitato a finanziare la realizzazione degli impianti necessari.

Le Cer non sono solo un modello di produzione e distribuzione, ma una vera e propria posta in gioco politica. Nelle trasformazioni promosse dalle Cer, un ruolo di rilievo dovrebbe infatti spettare al recupero della sovranità energetica da parte dei cosiddetti “territori del margine”, quelle parti del Paese più fragili e spopolate, che divengono avamposti di innovazione in cui sperimentare modelli socioeconomici e culturali legati alla transizione ecologica, che richiamano nuovi abitanti, competenze e partecipazione.

Fino a oggi, le amministrazioni locali sono risultate determinanti e con funzione di innesco e garanzia dell’operazione. Comuni e comunità hanno mappato i propri consumi pubblici e privati, hanno stimato la spesa energetica del territorio comunale, individuato luoghi idonei in cui realizzare soluzioni impiantistiche. Oltre al piano regolatore, i Comuni hanno per la prima volta elaborato un piano energetico territoriale, innescando processi di partecipazione e formando i propri cittadini alle comunità energetiche a forme di cooperativismo basate sulla redistribuzione del potere decisionale.

I territori sono così stati stimolate a ripensare il proprio abitare i luoghi, gestendo un bilancio collettivo che deriva dagli utili originati dagli incentivi e dalla vendita a prezzi di mercato dell’energia prodotta. Ciò ha permesso non solo di abbattere il costo delle bollette, assicurando protezione e manutenzione degli impianti, ma anche di investire in un’idea di futuro condiviso.

Piccoli paesi, dai mille abitanti in giù, hanno visto maturare speranze, aspettative di rivalsa e capacità di aspirare: nuova linfa al senso di una ricostruzione materiale e immateriale dei luoghi “che non contano”. Questa fase di fermento diffuso ha registrato inaspettati protagonismi; alcune aree del margine ad alto tasso di decremento demografico vivono da diversi anni una rinnovata centralità in cui i processi di neo-popolamento creano rigenerazione a base culturale e capacità di autodeterminazione delle comunità locali.

La politica può sostenere questi processi o ucciderli in culla. Il rischio, o forse il vero obiettivo dei decreti attuativi di cui sono circolate le bozze, è che nel passaggio da un sistema centralizzato a un sistema decentralizzato, il controllo resti comunque alle grandi corporation, in grado di fornire i finanziamenti previsti. Un modello che erode il valore generato sui territori dalle comunità, in una perfetta logica estrattiva schiacciata sugli interessi dei grandi gruppi e della finanziarizzazione di cui questi sono portatori.

Le Cer oggi rappresentano un’opportunità ad alto valore simbolico e politico; in esse si fondano ambientalismo e questioni di classe e luogo, nonché possibili modelli per una reale transizione ecologica basata sulla redistribuzione del potere e sulla giustizia sociale. Affinché le Cer siano davvero il veicolo per un nuovo rapporto tra giustizia sociale e climatica, è urgente prevedere forme di finanza agevolata/etica in grado di soddisfare la domanda di investimenti generata dalle opportunità e potenzialità di costituzione delle Cer. La democratizzazione dell’energia richiede una parallela democratizzazione del capitale e delle tecnologie, per non ridursi all’ennesimo cambiare tutto affinché nulla cambi veramente.