A proposito della elezione del senato previsto dalla «riforma», la propaganda renziana va dicendo che una futura legge ordinaria, su cui c’è già un accordo all’interno del suo partito (il c.d. lodo Chiti/Fornaro), garantirà l’elezione dei consiglieri regionali/ senatori da parte degli elettori, anzicché dei consiglieri stessi all’interno del Consiglio.

Sarà questa legge ordinaria – ha spiegato lo stesso Renzi – a stabilire, com’è compito di ogni legge elettorale, le «modalità» della concreta attuazione del principio costituzionale secondo cui l’elezione dei senatori deve avvenire «in conformità alle scelte espresse dagli elettori».

A Renzi non passa neanche per la testa che la titolarità dell’elettorato attivo, cioè il diritto di eleggere i parlamentari, così come il c.d. elettorato passivo (il diritto ad essere eletti), non è una «modalità» dell’elezione, ma una garanzia primaria della democrazia parlamentare che non può essere affidata ad accordi interni di partito e alla flessibile tutela di contingenti maggioranze parlamentari, ma deve essere scritta direttamente in Costituzione.

Altrimenti, secondo la logica renziana, si potrebbe modificare anche la «modalità» di elezione della Camera, sostituendo l’art. 56 della Costituzione vigente («La Camera è eletta a suffragio universale e diretto»), con una norma del tipo: «La Camera è eletta in conformità delle scelte espresse dagli elettori al momento del voto, con le modalità stabilite dalla legge elettorale», cui sarebbe quindi demandato di stabilire chi può votare chi.

Ma tralasciamo questi scrupoli «culturali» e cerchiamo di prefigurare il concreto scenario della elezione del Senato nella malaugurata ipotesi che passasse il Sì e tutte le scadenze e «modalità» previste dalla riforma e dalla sua legge attuativa fossero puntualmente rispettate.

Il discorso non è facile perché occorre inseguire la involuta e tortuosa prosa del testo renziano, ma per un attendibile esame del merito non c’è alternativa.

Dunque. In caso di fine della legislatura alla sua scadenza naturale (tarda primavera 2018), l’attuale Senato resterebbe in carica, ma fortemente delegittimato dalla radicale modifica della sua fonte di elezione.

Poi, entro 10 giorni dall’insediamento della nuova Camera, si insedierebbe il nuovo Senato, composto esclusivamente da consiglieri/senatori scelti dai loro colleghi e non eletti dai cittadini.

Successivamente, sempre che sia tradotta in legge l’intesa interna al Pd, in Senato entrerebbero i consiglieri eletti in occasione del rinnovo dei vari Consigli regionali.

Orbene, considerato che i Consigli regionali, salvo scioglimenti anticipati, saranno rinnovati a scaglioni dopo l’insediamento della nuova Camera tra i primi mesi del 2019 e la primavera del 2023, è evidente che, se passasse il Sì, nella prossima legislatura tutti o la stragrande maggioranza dei senatori sarebbero «nominati» dai colleghi consiglieri e non eletti dai cittadini.

Ed è aberrante che un organo del tutto privo di legittimazione popolare possa esercitare rilevanti funzioni legislative, ivi compresa la revisione della Costituzione (anche dei principi fondamentali scritti nella prima parte) e possa concorrere alla formazione di organismi di rilevanza costituzionale, come la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura.

In conclusione, lo scenario che emerge dal «combinato disposto» della riforma renziana e del «lodo Chiti/Fornaro», ammesso che questo diventi legge per mano dell’attuale maggioranza e non sia spazzato via da maggioranze future, è un Senato a stragrande maggioranza di «nominati» nella prossima legislatura, sottoposto, anche nelle legislature successive, ad un perenne avvicendamento coincidente con il rinnovo dei Consigli regionali.

Se passasse il Sì si aprirebbe, dunque, una stagione di instabilità istituzionale, con uno dei due rami del Parlamento in condizione precaria e privo di legittimazione popolare nella lunga fase transitoria ed esposto ai disagi e alle inefficienze di un continuo turnover nel suo assetto definitivo.