ll dramma della pandemia ci ha restituito al fondamento sociale della conservazione della «vita nuda» (Walter Benjamin), interrogandoci radicalmente su come istituire nuova vita oltre la soglia di una nuova «normalità» con i suoi vincitori e suoi perdenti.
Sembra il trionfo della verticalità e della ricentralizzazione esecutiva sulla scia di uno stato che si nutre di un’accelerazione biopolitica intorno alla quale si riordina dall’alto la microfisica dei poteri.

PER CHI HA SEMPRE guardato alle fibrillazioni nell’orizzontalità del sociale, all’ambivalente voglia di comunità, alla capacità di auto-organizzazione dal basso, come a contesti vitali di costante tentativo di rigenerazione delle forme partecipative e di protagonismo alla vita sociale, economica e politica, questa tendenza inviterebbe all’assumere sentimenti da «esodo», come «incapacità di ripensare il negativo». È questa una tentazione, quasi un automatismo, che attraversa un po’ tutti noi «movimentisti» di diversa natura e schiatta.
Per non cadere in questa tentazione «destituente» è molto utile il libro di Roberto Esposito dedicato a una densa riflessione sul concetto di Istituzione (Il Mulino, pp.168, euro 12), parola apparentemente fredda, da «passioni tristi». Come già ai tempi di Communitas (1998) e Immunitas (2002), nel filosofare di Esposito si trova il costante sforzo di confrontarsi con la dimensione del fare società e comunità in una metamorfosi epocale che richiede il coraggio dell’attraversare. Così è nel suo ragionare di istituzione come spostamento dello sguardo da ciò che è «istituito» alla prassi istituente, altro dalla ricerca del «potere costituente» che discende da Hobbes sino a Weber, passando da Hegel.

IL FILOSOFO NAPOLETANO ci invita a pensare all’istituzione non (solo) nell’ottica della «tenuta difensiva», o nel suo essere potere ordinativo del sociale, ma come «fatto sociale totale», per dirla con Mauss e Durkheim. Il pensiero e la prassi istituente possono allora rappresentare la pars construens della critica biopolitica se le istituzioni sono agite come soggetti viventi e non come pure funzioni regolative. Se le istituzioni sono tutte orientate a produrre immunità senza rivitalizzazione continua producono la malattia autoimmune della desocializzazione.

Pensare alle istituzioni come processi permette di uscire dalla dicotomia della neutralizzazione del conflitto senza ricorrere necessariamente alla scorciatoia del loro abbattimento o alla tentazione dell’esodo. Del resto, ciò che vivifica e che dà una certa direzione alla prassi istituente è il conflitto, cioè la dinamica della politica inscritta nelle relazioni sociali. Un conflitto che fa (o dovrebbe fare) delle istituzioni un campo di esercizio della libertà anche in rapporto alla potenza dell’algoritmo che concentra e nel contempo neutralizza i luoghi della mediazione del conflitto, le istituzioni appunto. Ecco allora, ad esempio, l’insufficienza di pensare di imbrigliare il capitalismo delle piattaforme per via puramente regolativa, se è vero come affermava Deleuze (richiamato da Esposito) che la democrazia è regime di «tante istituzioni e poche leggi», al contrario dell’autoritarismo.

LA GENERAZIONE di nuove istituzioni e la rigenerazione delle vecchie è anche l’unica via per curare la nostalgia sovranista variamente quotata alla politica e le illusioni della democrazia diretta. Pensiamo, ad esempio, a cosa significhi fare del welfare (scuola e sanità in primis, ma anche l’abitare) un campo di prassi istituente largo, giocato nei luoghi della salute e della formazione in tempi in cui la sfera riproduttiva diventa la posta in palio di un nuovo ciclo di sviluppo capitalistico. In questo ambito occorre registrare il profilarsi di un terzo settore capace di assumere non delega ma progetto nel produrre beni comunitari. Anche le fondazioni di comunità dovrebbero rovesciare il «capitalismo fondazionale in comunitarismo fondazionale».

Dal punto di vista delle istituzioni pubbliche dobbiamo immaginare pratiche di «umanesimo istituzionale» capaci di mettere in tensione movimenti e istituzioni. Pensiamo al mondo della rappresentanza sociale, a partire da quella sindacale, delle imprese o delle professioni, ai tanti senza rappresentanza spesso irrigidita nella funzione binaria di cinghia di trasmissione del diritto immunitario pubblico e di quello privato, di fronte alle sfide di quello che Esposito chiama «diritto collettivo» (vedasi alla voce common law) rispetto alle trasformazioni della composizione sociale, del lavoro e dell’impresa. E ancora l’ambiente che, come la vita, non è qualcosa che precede le istituzioni, essendo esso stesso stato storicamente istituito da linguaggio e cultura umana: natura, creato, paesaggio, etc., per restare alla sfera del pensiero occidentale che ha sempre considerato le istituzioni un modo per dominare la natura.

Ecco perché in epoca di Antropocene per passare dall’insostenibilità alla «conversione ecologica», che è qualcosa di più ambizioso della sostenibilità, occorre rigenerare le istituzioni adottando un linguaggio competente anche nella capacitazione sociale sui fini, anziché essere concentrato esclusivamente su una supposta competenza tecnica basata sul riconoscimento della sola comunità scientifica.

IN ALTRE PAROLE, seguendo il discorso di Esposito, anche la scienza e i luoghi della scienza necessitano di essere immessi nel vivo delle relazioni sociali facendosi forza istituente e non solo autonomia funzionale. Attraverso la lente dell’istituzione è allora possibile riconoscere una tendenza alla rigenerazione della società di mezzo di cui occorre tenere conto come forza propulsiva da ingaggiare nella partita del Recovery plan, qualora quest’ultimo ambisse a favorire la ritessitura sociale lacerata dal Covid 19. In definitiva, il libro di Roberto Esposito è un invito eterotopico a metterci in mezzo tra economia e politica per pensare e fare istituzioni di comunità.