Tutti ricorderete il mantra che ci ripetevamo durante il confinamento: «Nulla sarà come prima». Era la consueta trappola dell’ottimismo usato per non cadere nella disperazione, una specie di malattia che prende le fasce progressiste della società di cui sono affetto anch’io, e non c’è cura.

Non solo non è cambiato nulla in positivo per noi che giriamo nudi di carrozzeria in strada, ma la cosiddetta realtà delle cose ha subito un peggioramento, e non c’è segno di inversione di tendenza. Il nervosismo di chi è in macchina, una forma di isteria, già endogeno nel nostro cosiddetto popolo (passateci voi due ore al giorno in macchina, tutti i giorni di quasi tutta la vita: li capisco, non puoi non essere isterico/a) ha subito un innalzamento. Da attento osservatore di ciò che mi accade intorno in strada – l’osservazione attenta è una questione di mera sopravvivenza – vedo di continuo segnali di un’insofferenza all’altro – chiunque altro – più robusta del consueto stato di inimicizia tra frequentatori del luogo che usiamo chiamare «vie di comunicazione» e che sono in realtà il buco nero, la negazione della comunicazione.

Manovre improvvise più brusche; reazioni sopra le righe alla minima critica (un solo esempio che mi ha colpito: una ragazza in macchina al telefono stava per mettere sotto sulle strisce quattro dei pochi turisti che ci sono a Roma, le abbiamo strillato in cinque o sei, lei abbassa il finestrino e urla ossessivamente «ho chiesto scusaaaaa, avete capitoooo?», gli ignari stranieri pensavano fosse folklore italiano e probabilmente lo è; chiedere scusa è come pentirsi in articulo mortis accanto al prete, roba italica, scioglie ogni responsabilità).

Ancora ricordo le lunghe code durante la fase 2 davanti ai negozi di bici. Non si sa dove siano finite queste bici. Tutti sono pieni di paura in genere e in particolare dei mezzi pubblici dove è ovvio che ci si possa contagiare, quindi usano il mezzo personale: e questo non è stato la bicicletta. Quel meraviglioso mezzo viene percepito ancora come un impoverimento della propria già misera condizione, e oltretutto espone ai rischi del traffico carrozzato: dunque mi carrozzo, e il gorgo diventa sempre più turbinante fino a inghiottire ore, spazio, vita in città.

L’isteria serpeggiante in strada naturalmente è una parte di quella generale fragilità psicologica di cui ci ha ulteriormente fornito la pandemia: lo vedete tutti che non appena qualcuno starnutisce o tossisce la gente s’allontana impaurita, e potrebbe essere raffreddore, un fumatore, uno sorso di birra andato di traverso.

Ma in strada la cosa potrebbe avere risvolti anche letali, quindi suggerisco alcuni semplici accorgimenti: per esempio poggiate le vostre ruote sulla parte sporca (opaca) della strada. Questo perché il flusso motoristico segue delle traiettorie proprie della «loro» velocità, diversa dalla «nostra»: la strada è lucida dove passano loro, di conseguenza dove è opaca non passano. Questo toglie di torno la massima parte dei problemi. Agli incroci alzate un braccio e mostrate le prime tre dita: riattiva i neuroni dei guidatori, non so perché ma funziona. E scegliete di andare in senso inverso il più possibile, perché la nostra vista è frontale e ci accorgiamo dei pericoli.