Navigatore, pedagogista, direttore della scuola di vela «Mal di Mare», per ragazzi dai 5 ai 18 anni – la prima in Italia aperta anche a ragazzi con problemi di handicap – Mauro Pandimiglio da oltre 20 anni si occupa di ricerca sugli effetti educativi del mare nell’infanzia e nell’adolescenza. Ha fondato la Scuola di Vela Mal di Mare e la Handy Cup Onlus, è stato presidente e co-fondatore dell’Unione Italiana Vela Solidale.
Ha ricevuto nel 2011 l’Haward Pam dal Presidente dei parlamentari del Mediterraneo, è coautore del Manifesto europeo della Vela Solidale, presentato al Parlamento di Bruxelles nel 2007. Ora ha pubblicato sulla sua esperienza Modus Navigandi (Hoepli), e la dedica al fratello merita di essere riportata: «L’aspirazione più autentica, sarebbe quella di trovare in un linguaggio adatto, in un ritmo marino e ondivago, un “modus navigandi” che ci renda capaci di costruire un “clima” di relazione, un Oikos (casa, ecologia) accogliente, adatto a tenere insieme, nella precarietà di cui si ha tutti bisogno, ogni sistema vivente».

Come è iniziata la tua storia col mare?

Con il mio amico Dario Bellini al lago di Bracciano, aveva una deriva,lì ho iniziato a fare i primi passi sull’acqua e non sono più sceso, sarà stato il 1975/76. Mio padre era alpino, io sono nato a Roma, da piccolo mi mandarono in montagna col Cai, il club alpino. L’adolescenza l’ho passata a salire montagne, poi è capitata questa cosa a Bracciano. Sceso a valle ho cominciato a navigare e non ho più smesso. A quei tempi studiavo architettura, insegnavo educazione tecnica nelle scuole medie e ogni tanto facevo piccoli viaggi con amici nel Mediterraneo. Dopo aver passato un paio di mesi continuativi su una barca mi sembrò così bello e incredibile, molto meglio che stare in città in mezzo al traffico, che andai dal preside della scuola e mi licenziai. Era l’anno in cui avrei dovuto fare il giuramento per entrare di ruolo. Da lì ho cominciato i primi piccoli lavori, delle barche da trasferire da un porto all’altro, finché ho cominciato a fare traversate dell’Atlantico come equipaggio. Ne ho fatte diverse, una volta abbiamo anche disalberato a 700 miglia da Guadalupe, abbiamo dovuto fare un armo di fortuna per tornare indietro. In seguito è diventato proprio un lavoro, andavo in giro per trasferimenti e per piccoli charter. Ho traversato l’Atlantico diverse volte e un po’ dappertutto il Mediterraneo. In un secondo tempo ho organizzato viaggi in Polinesia, credo di essere stato tra i primi in Italia. Arrivati in aereo si faceva una piccola flotta di barche di 14/15 metri, con 7/8 persone a bordo, nella Polinesia francese, le Isole Sottovento, Thaiti, Raiatea, Bora Bora e le altre. Ho iniziato questa attività fondando una scuola di vela a Ventotene ma ci rimasi solo 2 anni. Nel 1986 aprii a Roma, nel vicolo del Cinque a Trastevere, Maldimare, un locale-pub dedicato a una serie di attività veliche. Ebbe un grande successo. Era aperto tutte le sere, ci passava un sacco di gente, mi ricordo che in quei tempi usciva il libro di Benni Il bar in fondo al mare, e Benni venne proprio mentre stava ultimando di scriverlo. La sera facevamo incontri con personaggi di mare, gente che navigava intorno al mondo. Uno dei più interessanti è stato l’incontro con ufficiali della marina militare italiana. C’era Agostino Straulino, medaglia d’oro alle olimpiadi di Helsinki del 1952, l’ammiraglio Franco Faggioni, che ha fatto la transoceanica in solitario, fu una serata particolarissima, la sala era strapiena e per la Marina militare non era usuale mettersi così in mostra. La chiamavano «l’arma silenziosa».
Di fronte al Maldimare c’era Il Monte Analogo, una delle librerie storiche di Roma, dedicata alla montagna, e una volta l’anno facevamo delle gare lungo vicolo del Cinque tra montanari e marinai, corse con ai piedi pinne e racchette da sci, tiro alla fune, braccio di ferro, canti della montagna e di mare.

Quanto resta in genere un ragazzo nella vostra scuola?

Abbiamo moduli settimanali, minimo una settimana. Ci sono scuole che puntano molto sulla performance tecnica, noi puntiamo sulla performance relazionale. La barca per noi è un luogo dove uno incontra l’altro, si forma un equipaggio, si costruisce lo stare insieme, la barca ha bisogno di una collaborazione e questo ci porta a sperimentarci e a crescere insieme agli altri. Questo è l’aspetto centrale. Quando abbiamo aperto nel ’95 la nostra idea era quella di una scuola residenziale normale. Quello che alla fine degli anni ’90 ci ha portato a una rivoluzione importante è stato l’aver aperto a ragazzi con disabilità e a ragazzi con svantaggio sociale. Cominciammo a fare progetti con il carcere minorile e questo ci ha obbligato a stravolgere tutta la didattica. Trovandoci di fronte a ragazzi con disabilità cognitive, e non solo fisiche, se volevamo integrarli pienamente dovevamo cambiare completamente la didattica, cambiare il nostro modo di insegnare, adattarci noi alle esigenze loro invece che avere noi un protocollo che loro dovevano seguire. A un certo punto abbiamo notato che quelle cose che favorivano ragazzi con disabilità favorivano anche gli altri. Sono stati un po’ i nostri maestri, ci hanno spinto a cambiare le cose in meglio per tutti quanti.

I ragazzi disabili seguono corsi a parte?

No, i ragazzi vanno in barca insieme, fanno tutto insieme, con una percentuale che ci permette di seguirli più da vicino. La presenza di ragazzi disabili è in genere del 30%. Questo rapporto con i ragazzi disabili ha un valore straordinario per gli altri ragazzi ma anche per gli istruttori della scuola, che sono quasi sempre ex allievi. Questo ha voluto dire tantissimo per i ragazzi normodotati, gli ha permesso di tirar fuori la loro fragilità, conoscere qualcosa di cui potevano occuparsi, e prendendosi cura dell’altro riuscivano anche a prendersi cura di se stessi in altro modo che non fosse il capriccio, il privegio etc.

È comune una certa paura verso i giovani con disabilità…

Assolutamente sì, c’è paura, perplessità, paura di non saper fare, una paura quasi misteriosa, un elemento di mistero. Abbiamo avuto tanti ragazzi con tratti di autismo, come sempre uno diverso dall’altro, e abbiamo vissuto con loro e grazie a loro avventure straordinarie. Fin dall’inizio abbiamo avuto la convinzione che non erano i ragazzi che dovevamo abituarsi alle nostre regole, al nostro modo di andare in barca, ma eravamo noi che dovevamo andare dietro a loro. C’era un ragazzo, sta ancora con noi, che amava tantissimo tuffarsi. Quando è venuto aveva più o meno 12 anni, era di corporatura molto grande e aveva un assistente che lo seguiva come un ombra, uno che aveva a volte scatti d’ira cercando di disciplinarlo. Abbiamo cominciato a osservarlo mentre faceva i tuffi. E ci tuffavamo insieme a lui. Gli abbiamo poi permesso di fare tuffi dalle barche. Il lavoro che abbiamo fatto è stato seguire totalmente quello che lui amava più fare. Piano piano negli anni ha cominciato a salire in barca, a guidarla, a seguire le boe con un risultato forte anche dal punto di vista della prestazione. Un altro bel ricordo che ho è di una classe con un ragazzo con tratti di autismo. Stavano armando. Quasi sempre il ragazzo in questi casi si isola, se ne va da una parte. Lui è entrato in acqua facendo uno dei gesti abbastanza stereotipi per un ragazzo con autismo, mettersi le mani sulle orecchie e stare lì a guardare il mare. In genere noi non interveniamo direttamente sul ragazzo, interveniamo sul gruppo e gli consigliamo di andare a recuperare la parte del gruppo che se ne è andata. E lì c’è stato un colpo di genio di uno dei ragazzi, è andato di fianco a questo ragazzo e si è messo anche lui le mani sulle orecchie. A quel punto tutti gli altri lo hanno seguito in acqua e hanno fatto lo stesso. C’è stata una fila di ragazzi con le mani sulle orecchie e io ero commosso alle lacrime, era una cosa esaltante. Il ragazzo con l’autismo non ha avuto una reazione visibile, ma sicuramente ha percepito la vicinanza degli altri ragazzi e insieme sono tornati alla barca.

La barca come terapia?

L’hanno anche chiamata vela-terapia ma secondo me in maniera impropria, nel senso che è un termine che sta un po’ stretto. Non è la vela o la scuola, è proprio il mare che è l’agente terapeutico. Essendo sempre in costante cambiamento costringe chiunque ad adeguarsi a questi cambiamenti e quindi a trasformare se stessi e le cose che si fanno in relazione al mare. Questo allenamento continuo, giorno dopo giorno, attiva una capacità di mobilità interna ed esterna anche relazionale. Il mare ha questa grossa capacità che le neuroscienze ci hanno finalmente spiegato. Negli anni ’50 un certo MacLean parla del cervello trino, cervello che porta la memoria filogenetica, ha una parte rettiliana, una parte limbica o mammaliana, e poi la neocorteccia. Queste tre parti afferiscono a tre zone importanti, una è la parte cognitiva, una quella emotiva e la terza è una coscienza viscerale. Gli studi che si sono fatti hanno capovolto l’assunto descartiano, nel senso che la cognitiva è l’ultima delle coscienze, quella che trasforma in una qualche operatività e in un linguaggio decisioni importanti e radicali che sono state prese a monte dalla coscienza viscerale, e trasformate in emozioni. Il mare è un agente terapeutico che parla direttamente alla coscienza viscerale. Per questo tranquillizza anche la parte cognitiva. Contemplare il mare rasserena. Ormai è stato appurato che se hai la parte alta del cervello completamente in necrosi, vivi uguale. Al contrario, se hai parti malridotte nel tronco encefalico non riesci proprio a campare. Nella scuola tradizionale c’è una dittatura del cognitivo che schiaccia e umilia ogni altra parte del nostro corpo e del nostro fare. Il mare è il nuovo paradigma, che va ad acchiappare la parte del nostro cervello più bassa, più antica, se vogliamo più importante.

Che studi hai fatto?

Sono laureato in pedagogia, ma al di là dell’università ho studiato parecchio anche fuori. Uno dei mentori più importanti e che mi ha dato veramente tanto è stato Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile in Italia, che ha seguito la scuola di vela.

Come funziona Maldimare?

Abbiamo una capienza di 35 ragazzi a settimana. Dormono in grandi tende da campeggio con brande per 6/7 ragazzi e ragazze, separati da una certa età in poi, fino a 8/9 anni dormono insieme. C’è una cucina, un living dove mangiare. La mattina sveglia alle 7,30, si fa colazione – la preparano alcuni istruttori a turno, mentre per pranzo e cena c’è una signora. Alle 8.30 c’è una prima riunione con tutti quanti, da sempre aperta con la lettura di qualche pagina sul mare o una poesia. Il libro che più di altri è stata la nostra colonna sonora è stato Novecento di Baricco, ha entusiasmato i ragazzi, c’è qualcosa in quel soggetto che è di una forza straordinaria. È la storia di un bambino che durante la migrazione degli italiani in America viene lasciato sulla nave e viene adottato da un marinaio fuochista. Per oltre 30 anni vive su questa nave con tutta una serie di avventure, senza scendere mai dalla nave. E poi naturalmente Moby Dick, Robinson Crusoe, Gulliver, I lavoratori del mare di Victor Hugo.
Dopo la riunione andiamo in spiaggia, armiamo le barche e stiamo in mare fino a poco prima dell’una. Quindi pranzo, riposo fino alle 15.00, si ritorna in mare e alle 18/18.30 si rimette tutto a posto. Doccia, cena, diario di bordo, tutti scrivono ogni giorno un piccolo diario, quindi una pausa fino alle 10.30 e si va a dormire.

Continui a navigare per il mondo?

Purtroppo no, ho diminuito moltissimo i viaggi per mare, l’attività alla scuola mi ha preso. Nel 2001 abbiamo organizzato Handy Cup, una regata, la prima in Italia, dove per partecipare bisognava avere un disabile a bordo. L’organizzai insieme ad altri su barche grandi a Cala Galera-Porto Ercole, sull’Argentario, e fu un successo straordinario. Nessuno se l’aspettava, ci trovammo quel giorno con 70 barche di associazioni di ogni parte d’Italia a cui si sommarono barche di privati che si offrirono di prendere a bordo ragazzi con diverse patologie. Questa iniziativa l’abbiamo ripetuta fino al 2011. Quell’edizione fu un successo internazionale promossa dal presidente della Commissione europea con l’alto patrocinio del presidente della Repubblica. L’ultima Handy Cup la facemmo a Malta, intitolata «Siamo tutti sulla stessa barca», sulla povertà educativa e la disabilità dei paesi del Mediterraneo, in collaborazione con una associazione maltese e l’ambasciata italiana. Vennero una trentina di associazioni da 15 paesi, sia riva nord che sud, libanesi, giordani, libici, palestinesi e italiani, portoghesi…i due presidenti della repubblica firmarono un francobollo commemorativo.

La scuola chiude verso la fine di ottobre con le scuole e riapre ad aprile-maggio.

Lavoriamo al 70% con le scuole e al 30% con privati. Questo discorso della vela nelle scuole molti lo portano avanti come interdisciplinarietà di varie materie che trovano la loro collocazione nella vela e nella navigazione, per esempio la fisica con i i vettori del vento,l’italiano con la letteratura marinara… noi abbiamo fatto un passo in più. È uno degli aspetti del mio libro. Stare in mare è abitare il cambiamento, essere disponibili a qualcosa che cambia ogni momento. Sul mare stiamo sempre in squilibrio, uno squilibrio che ci permette però di navigare, la barca si piega, noi stiamo da una parte, ci aggiustiamo. L’obiettivo di questo libro è promuovere un nuovo paradigma educativo. Faccio un esempio, con mare tranquillo facciamo di solito una prima lezione senza timone. Uno non esperto può pensare questi sono matti, come si fa a guidare una barca senza timone. In realtà è possibile ed è anche abbastanza semplice regolando le vele, mollandone una e alzando l’altra e con lo spostamento del corpo. Abbiamo abolito la teoria, perchè mentre un protocollo di cose da fare ha bisogno di una teoria, in questo caso quello che serve è stare sulla barca. Nella dimensione tradizionale si usa solo una parte del corpo, la mano che tiene il timone, e la testa sta nelle cose che gli sono state dette nella teoria. Nella dimensione senza timone tutto il corpo è coinvolto ed è presente lì sul momento perché deve integrare nello stesso movimento lo spostamento della barca, il vento, lo stato del mare e se stesso. È come se in una classe togliessimo il libro di testo e ragionassimo su un problema presente, che nasca da una esigenza dei ragazzi, un problema che possono sperimentare in presa diretta perché lo stanno vivendo. Il mare è continuamente mosso, continuamente cangiante, è in estremo contatto con tutto l’universo, se arriva un rivolo di vento si corruga, la luna lo fa crescere, è il vero maestro nella dimensione tomistica, il maestro che evoca il sapere, il maestro che non dice niente ma ti insegna, maestro che non ha parole, non ha linguaggio ma semplicemente col suo fare ti insegna.