Psicoanalista e artista nata a Lisbona nel 1968, Grada Kilomba ha dedicato la sua vita a studiare l’intreccio tra razzismo e sessismo focalizzandosi su memoria, trauma e guarigione. Le sue opere portano in scena, con installazioni e performance, testi scritti a partire da sé e da interviste sul campo.
L’abbiamo incontrata a Torino dove dal 24 gennaio esporrà una versione inedita della sua installazione O Barco al Castello di Rivoli nell’ambito della mostra collettiva Espressioni. L’Epilogo. A Torino, Kilomba ha anche presentato al Circolo dei lettori – in dialogo con Johanne Affricot di Spazio Griot – il suo libro Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, scritto nel 2008 e ora tradotto per la prima volta in italiano da Capovolte (traduzione dall’inglese di Mackda Ghebremariam Tesfaù e Marie Moïse – quest’ultima il 12 ne discuterà a Roma a Lucha y Siesta – e dell’introduzione dal portoghese di Silvia Stefani). Casa editrice indipendente e femminista di Alessandria, Capovolte ha un progetto editoriale originale che affianca una collana sullo sport (la direttrice Ilaria Leccardi è ex ginnasta) a testi politici come quello di Kilomba.
Il libro, nato da ricerche e interviste condotte durante il dottorato in Germania, tiene insieme storia e dimensione quotidiana dell’oppressione razziale in un’ottica psicoanalitica e trasformativa. Per l’autrice, il razzismo è atemporale perché riattiva nel presente le memorie collettive del trauma coloniale. Da ciò nasce la metafora della piantagione come luogo simbolo a cui la persona razzializzata viene ricondotta da ogni aggressione.

Se pensiamo che il razzismo affondi le radici in quel progetto sistematico di sfruttamento e sterminio che è il colonialismo può sorprendere che lei ne parli in termini di irrazionalità. Che cosa intende?
Parlo di irrazionalità perché il razzismo – e altre forme di oppressione – non sono una conseguenza logica di un fatto biologico. È la disumanizzazione a costruire l’inferiorità dei corpi, dunque il razzismo è un fenomeno discorsivo, fatto di testi e immagini, che opera attraverso una catena di associazioni ed equivalenze che la propaganda conosce bene. Immagini e testo hanno il potere di collocare alcuni corpi fuori dalla sfera umana, dalla nazione e dal diritto e così di naturalizzarne e giustificarne la disumanizzazione. Per esempio, se si discute di «immigrazione» avvicinandola all’aggettivo «illegale» automaticamente si crea una sequenza associativa. Se l’immigrazione è illegale, gli immigrati sono dei fuori legge, se sono fuori legge sono pericolosi e se sono pericolosi ci dobbiamo difendere. L’associazione fornisce credibilità a una costruzione e va demistificata. I cultural studies hanno dato un contributo immenso allo sviluppo di strumenti di demistificazione di testi e immagini. Uno dei compiti più belli che abbiamo come nuova generazione postcoloniale è quello di inventare immaginari e vocabolari nuovi.

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Ritiene che le quote, per esempio quelle che si stanno affermando nell’industria cinematografica, possano dare un contributo in questo senso?
La tragica eredità storica che ci ritroviamo non si manifesta solo nel cinema ma in ogni ambito della conoscenza. Potremmo dire che ogni disciplina si è sviluppata per giustificare il colonialismo. Biologia, filosofia, psicologia, antropologia, etnologia, geologia, geografia, teatro, cinema, letteratura, fotografia, scultura hanno avuto il compito di legittimare l’inferiorizzazione e la gerarchizzazione di certi corpi. Ci tocca ripensare tutto il sapere che abbiamo ereditato, oltrepassare le stesse strutture disciplinari nate per costruire differenze, dividere i normali dai devianti, noi e loro, ciò che è comprensibile da ciò che non lo è. Ecco perché sono molto felice se quel che faccio disorienta. Quando ho scritto Memorie della piantagione l’editoria non sapeva come collocarlo: non era né finzione né autobiografia, né psicoanalisi né filosofia. La confusione nasce dal non sapere e dal non sapere inizia la decolonizzazione. Solo nel momento in cui emerge qualcosa di inclassificabile rispetto ai parametri dominanti ci troviamo di fronte a una novità, a un’opera che può viaggiare oltre i confini prestabiliti tra luoghi e discipline.

Il fenomeno dell’abbandono scolastico o dei «neet» mostra che esclusione e autoesclusione sono due facce della stessa medaglia. Da docente come fa a combatterle?
Vorrei chiarire una cosa: io non combatto, creo. Per passare dall’opposizione alla creazione è necessario un processo che richiede tempo. La generazione dei miei genitori si opponeva, noi non possiamo più rispondere, giustificarci e spiegarci. Da giovane mi stancavo molto a controbattere e a cercare di farmi capire. Ora faccio semplicemente quel che sento giusto. Per me insegnare significa invitare a inventare il linguaggio più adatto a raccontare la propria storia e, dunque, a disobbedire alle discipline che esistono per fissare le nostre identità, costruire la nostra alterità, assegnarci un posto in una gerarchia. Quante persone giovani mi dicono: «volevo fare questo ma mi hanno detto che non è rilevante, importante, possibile, accettabile, fondato». Il sapere può produrre violenza o liberazione. Nei miei corsi proviamo a smantellare i processi dominanti di produzione del sapere e della devianza ed è molto divertente.

Anche la psicoanalisi può essere tanto normativa quanto trasformativa…
Tutte le discipline sono problematiche e insufficienti a risolvere i nostri problemi. Quel che mi interessa è usare immagini, narrazioni, pratiche psicoanalitiche per comprendere, aprire porte, far emergere domande. Non sono una seguace di una scuola in particolare, non mi interessa obbedire ma disobbedire poeticamente.

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Che ruolo ha la performance nel suo lavoro di artista?
La performance traduce saperi molto complessi e dolorosi in atti, immagini, in un linguaggio poetico che può avere un impatto più profondo dei libri di storia in cui la conoscenza resta su un piano cognitivo, razionale, intellettuale. Solo quando il sapere accede al corpo e alle emozioni diviene trasformativo. La performance è un sapere che si incarna sulla scena e che così incontra l’inconscio di chi guarda. Simboli e metafore possono apparire senza senso nella realtà ma se producono effetti onirici vuol dire che hanno raggiunto l’inconscio. Musica, sculture, immagini, poesia, performance sono la lingua magica e poetica che ci permette di elaborare la complessità della storia che abbiamo ereditato e che viene continuamente negata, cancellata nonostante riemerga nella quotidianità sotto forma di razzismo. Questa è la differenza tra l’arte e la conoscenza accademica: invece di dare risposte fa domande e lascia posto all’inatteso.

Perché ha scelto di vivere a Berlino?
È una città speciale, con una storia violenta ma un rapporto di colpa e vergogna con il passato che è propizio al cambiamento. È stata la città dove Audre Lorde ha dato avvio al movimento delle donne afro-tedesche, dove è nata la poeta May Ayim a cui è stata dedicata una via che prima portava il nome di un colonizzatore. Berlino permette non solo di ripensare la storia ma anche di ideare il futuro.

Come è nata l’idea di utilizzare la schwa nella versione italiana del libro?
Dalla necessità di cambiare la lingua. Ho scritto Memorie della piantagione in inglese e quando ho provato a tradurlo in portoghese sono andata in crisi: la grammatica mi obbligava a dare un genere a parole che non lo avevano come other, subject, Black e allora ho optato per la desinenza X. L’inglese è una lingua imperialista ma è anche la lingua delle Black Panthers, di Patricia Hill Collins, di Stuart Hall, Paul Gilroy e dà la possibilità di oltrepassare quella dicotomia maschile/femminile che traduce nella lingua la coppia eterosessuale come struttura di potere problematica che lascia fuori molti soggetti e in cui il maschile domina sul femminile.

C’è chi afferma che evitando il genere si rischia di cancellare il conflitto sessuale, qual è la sua opinione?
Forse poteva essere vero cinquant’anni fa, quando il movimento femminista occidentale concepiva solo il conflitto tra uomini e donne escludendo le donne razzializzate e i soggetti lgbt ma ora il soggetto del femminismo è intersezionale e include nuovi soggetti. Femminismo oggi è anche creare nuovi linguaggi per dire l’umanità. È un processo in atto.