I sistemi pensionistici vanno disegnati in rapporto sia alle esigenze previdenziali sia al contesto dei più complessivi equilibri economici e sociali e delle loro prospettive temporali. Gli interventi pensionistici che il governo sta proponendo, e il dibattito che li accompagna, continuano ad eludere il problema principale, cioè il disastro sociale che sta maturando: quasi la metà dei lavoratori dipendenti entrati nel mercato del lavoro dopo il 1995, avendo sperimentato retribuzioni saltuarie e basse, per le quali non si prospettano miglioramenti risolutivi, matureranno una pensione del tutto inadeguata. Attualmente, questi lavoratori sono «distratti» da esigenze di sussistenza molto più immediate che già pregiudicano scelte rilevantissime e più ravvicinate come mettere su casa e fare figli; ma quando fra qualche anno realizzeranno che il futuro solo vagamente temuto sta per concretizzarsi – cioè che l’inadeguatezza di reddito della vita lavorativa si riproporrà, ulteriormente aggravata, nella fase finale della propria esistenza – non ci si potrà sorprendere delle reazioni e degli effetti sui complessivi equilibri sociali, economici, politici e civili.

Per cercare di contrastare questa «bomba sociale» con effetti multipli, occorre da subito intervenire nell’assetto pensionistico, combinando i suoi obiettivi previdenziali con quelli favorevoli alla crescita economica che, a sua volta, renderà sostenibili prestazioni più adeguate.

Da tempo, nel Rapporto sullo Stato sociale elaborato in Sapienza si propone di riconoscere ai lavoratori una contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione involontaria. Questa misura non peserebbe affatto sui conti pubblici attuali. Nel futuro, le maggiori prestazioni che matureranno andranno rapportate ai valori contemporanei del Pil, i quali dipenderanno anche dalle politiche attuali. Iniziare a disinnescare la «bomba sociale» in formazione, iniettando nei giovani ed ex giovani di oggi qualche rassicurazione per il loro futuro, sarebbe un contributo non solo alla loro stabilità di vita, ma anche alla generale propensione sia a consumare sia ad investire, con positivi effetti sulle tendenze macroeconomiche.

Se gli 80 euro concessi dal governo Renzi hanno avuto un basso impatto sulla crescita è perché, pur essendo stati erogati a percettori di redditi non elevati, sono stati in buona parte risparmiati per fronteggiare i rischi della precarietà. Per le stesse preoccupazioni del futuro, personale e della propria famiglia, «quota 100» – cioè la possibilità di anticipare l’età di pensionamento a 62 anni (ma solo avendo almeno 38 annualità contributive) – pure avendo il pregio di ampliare i margini di scelta in un delicato passaggio di vita – potrà essere praticata da una parte limitata dei potenziali fruitori.

Infatti andare prima in pensione implica anticipare il normale calo di reddito dovuto al passaggio dalla retribuzione alla pensione, per di più accentuato dalla riduzione dell’assegno pensionistico provocata dall’anticipo del collocamento a riposo. Un lavoratore con una retribuzione di 2.000 euro netti che avesse un’adeguata storia contributiva e potesse contare a 67 anni su un buon tasso di sostituzione, supponiamo il 75%, a quell’età vedrebbe calare il suo reddito a 1500 euro; ritirandosi a 62 anni, non solo anticiperebbe di 5 anni questo calo di reddito, ma lo accentuerebbe di circa un ulteriore 15%, riducendo la pensione per il resto della sua vita a 1.275 euro.

Dunque è ragionevole pensare che le adesioni a «quota 100» non potranno riguardare una parte consistente della platea potenziale. Ciò significa anche che questo provvedimento, da un lato avrà un costo inferiore alle attese (da alcuni strumentalmente esagerato), d’altro lato non potrà aiutare molto a risollevare il clima delle aspettative economiche.
I tagli alle cosiddette «pensioni d’oro» (superiori a 4.500 euro netti mensili), che darebbero risparmi di spesa molto inferiori al miliardo annunciato, non potrebbero tener conto dei contributi versati (di cui non esistono le informazioni necessarie), ma dipenderebbero dalla differenza tra le età di pensionamento arbitrariamente fissate oggi e retrodatate e quelle legalmente vigenti e rispettate all’epoca da ciascun pensionato. Ciò si presterebbe a rilievi di incostituzionalità che, peraltro, come già accaduto, si applicherebbero anche all’eventuale riduzione dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione che si vorrebbe reintrodurre (misura anch’essa di scarso effetto finanziario).

Paradossalmente si tornerebbe a individuare nel settore pensionistico l’ambito per attuare politiche redistributive, per di più mal concepite, mentre contemporaneamente si propongono condoni fiscali e si prospetta la flat tax, misure che riducono la progressività.