Se mai ce ne fosse stato bisogno, la pandemia da Covid 19 ha mostrato come non sia più sostenibile un tipo di sviluppo che si basa sullo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali e delle specie animali per fini di profitto. La necessità di un cambiamento è generalmente riconosciuta. Ma in quali direzioni e con quali priorità? Prova a rispondere Laura Pennacchi nel suo Democrazia economica: dalla pandemia a un nuovo umanesimo, appena uscito da Castelvecchi (pp.124, euro 15).

LA CONVINZIONE di fondo dell’autrice è molto chiara: se siamo destinati a convivere con il capitalismo, ciò non significa che dobbiamo accettarlo così com’è. Al contrario, già parlare del capitalismo è sbagliato, perché il capitalismo non è una realtà monolitica. Di capitalismi ce ne sono e ce ne sono stati molti, profondamente diversi sia nei loro modelli di accumulazione, sia nel loro innesto sul complesso della società. Dobbiamo imparare a destreggiarci tra i molti «capitalismi possibili». Raccogliendo anche l’eredità di tutte quelle esperienze che, nel Novecento, hanno cercato equilibri più sostenibili tra capitale e democrazia: dal New Deal rooseveltiano al laburismo col piano Beveridge, fino alle socialdemocrazie scandinave e alle conquiste che, anche in Italia, caratterizzarono le migliori stagioni del dopoguerra.

QUESTE ACQUISIZIONI sono state in gran parte rovesciate dalla restaurazione neoliberista: «Il neoliberismo – scrive Pennacchi – ci lascia con una drammatica sottoproduzione di beni pubblici di cui ci ha reso acutamente avvertiti lo shock pandemico – a partire dai beni pubblici sanitari, ma compresi i beni pubblici ‘relazione’ e ‘socialità’ – e con una devastante dissipazione di risorse ambientali. Finanziarizzazione, commodification, denormativizzazione, i processi di fondo in cui il neoliberismo si è tradotto» hanno configurato una vera e propria regressione di civiltà, della quale a questo punto è difficile non prendere atto.

NON MERAVIGLIA, perciò, il fatto che ormai anche i più accaniti sostenitori (fino a ieri) del liberal-capitalismo riconoscano che c’è bisogno di un «nuovo New Deal», basato sulla transizione ecologica e la sostenibilità. Dietro l’apparente unanimismo di questo discorso, però, passano delle discriminanti che Laura Pennacchi traccia con molta chiarezza.
La prima riguarda il ruolo dello Stato e dell’economia pubblica: mentre tutto il mainstream paventa il ritorno dello «statalismo», Pennacchi sostiene in modo persuasivo, riprendendo anche le tesi sullo Stato innovatore di Mariana Mazzuccato, che «l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la domanda: Che tipo di economia vogliamo?». C’è bisogno pertanto non solo di uno Stato «strategico», che orienti «indirettamente» l’economia attraverso incentivi, disincentivi e regolazioni, ma anche dello Stato come soggetto economico impegnato direttamente, o attraverso co-investimenti, sui fronti più rilevanti della «economia verde». Le priorità devono essere appunto «rivoluzione verde, beni sociali, beni comuni, bisogni emergenti». E quindi: tutela della salute, sviluppo della cultura e della persona, manutenzione e fruizione degli spazi urbani e del territorio, socialità e cura di sé.

TUTTO CIÒ ha molto a che fare con l’altra grande discriminante sulla quale Pennacchi insiste, quella del lavoro. Da sempre polemica nei confronti del «reddito di cittadinanza», scettica sull’avvento della jobless society, Pennacchi insiste su due punti qualificanti. In primo luogo, ribadisce la tesi che, anche nella nostra società «postmoderna», il lavoro è centrale nella definizione della identità personale e nella costruzione delle relazioni sociali. Ciò che ti dà il lavoro, non te lo può dare il reddito di cittadinanza. Ma quale lavoro? Lavoro, come ha insegnato innanzitutto il femminismo, è molto di più di ciò che tradizionalmente si intende con esso. E il lavoro sul quale oggi si deve puntare, sostiene Pennacchi, è quello ad alta intensità di competenze, necessarie in ambiti come salute, istruzione, servizi alla persona, industria creativa, informazione. La cittadinanza democratica (ovvero la «democrazia economica») richiede anche che sia garantito, tutelato e qualificato il lavoro.

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Il volume viene presentato (oggi alle 16) su Collettiva, la piattaforma della Cgil, con gli interventi di Maurizio Landini, Enrico Letta e Nadia Urbinati. Modera Alberto Orioli.