Jacques Derrida ha avuto, come pochi altri filosofi, un’attenzione particolare per l’architettura, meglio per il «pensiero architetturale» considerato sempre aperto, plurale e «senza stazioni di arrivo prestabilite», come puntualizzò Pier Aldo Rovatti. Impegnato a «decostruire» la tecnica e le forme con le quali la storia della filosofia greco-occidentale ha pensato l’architettura, Derrida ne ha messi in discussione le finalità, le metafore, i modelli e i suoi corpi estranei nell’attesa continua di un differente evento architettonico non più legato a essi. Nonostante la sua filosofia della decostruzione sia stata compresa con difficoltà dagli architetti, quindi, al di là della difficile convivenza o del «matrimonio sfortunato» avuto con loro, resta incontestabile che Derrida abbia dato un contributo rilevante per meditare sui sistemi e sulle categorie che hanno riguardato lo spazio e l’abitare, il valore e il significato del luogo e della polis, oltre la dimensione progettuale, semiotica o storica consegnataci dalla filosofia.

Dalla lettura degli scritti e degli interventi di Derrida ora raccolti a cura di Francesco Vitale in Le arti dello spazio (Mimesis «Estetica e architettura», pp. 422, € 25,00), già editi con poche varianti dieci anni fa con il titolo Adesso l’architettura (Libri Scheiwiller), si può comprendere quanto mobile e abbastanza circoscritto nel tempo, sia stato l’impegno del filosofo franco-algerino per l’architettura. Amava premettere che nei suoi confronti egli si poneva sempre da «incompetente», aggiungendo senza falsa modestia che una «questione di competenza» riguardava anche il suo confronto con la filosofia. Occorre dire che all’origine dei suoi interessi riguardo l’«architettonica» fu determinante l’invito che nel 1985 Bernard Tschumi, vincitore del concorso per il Parc de la Villette a Parigi, rivolse a lui e a Peter Eisenman per l’ideazione di un giardino all’interno del parco. Il progetto non fu mai realizzato, ma il dibattito avuto con i due architetti diede l’occasione a Derrida di illustrare le proprie idee su un tema che già aveva incrociato nel corso delle sue indagini filosofiche. Con la presentazione del progetto di Tschumi (Point de folie – maintenant l’architecture, 1985) e poi nel saggio contenuto in Chora L Works. Jacques Derrida and Peter Eisenman (a cura di J. Kipnis e T. Leeser, Architectural Association, London 1991), egli demolisce il primato del filosofo classico quale detentore – «pontificatore» scrive Vitale – della verità in architettura e al tempo stesso mette in guardia chi considera la decostruzione come un nuovo programma filosofico, assumendo erroneamente anch’essa come una forma della metafora architettonica.

I due testi sopra citati inaugurano un intenso periodo di ricerche che quasi per un decennio Derrida svilupperà tra le due sponde dell’Atlantico. Ancora con Eisenman presenta alla III Biennale di architettura di Venezia (1986) il progetto Romeo et Juliette proseguendo una serie di interpretazioni che all’opposto dell’architetto americano, interessato a «destabilizzare» l’architettura per condurla al suo «grado zero», intendono invece esaltarla per la sua «presenza», affinché essa non sia neutralizzata, ma piuttosto mostrata nelle sue «forme, scale, itinerari, tracce, ecc.». Considerare insomma l’architettura qualcosa di produttivo, non di negativo. Il pensiero architettonico, infatti, è decostruttivo non in quanto demolisce o «disarticola» una tradizione o una cultura, ma perché scopre una «nuova strada».

È così che Derrida s’incammina verso una diversa scrittura dell’architettura: non rappresentativa, non discorsiva, mai oggettiva e dominabile, dimostrando di sapersi muovere con determinazione dentro il labirinto delle metafore, le figure e le retoriche che da Aristotele a Heidegger compongono «l’autorità della concatenazione architettonica in filosofia». I suoi interventi non riguardano, quindi, la teoria estetica dell’architettura, ma il linguaggio filosofico riconosciuto così affine alla «natura architettonica», consapevole che tra le due discipline non potrà mai esserci interdipendenza nonostante diversi architetti abbiano aspirato a volere tradurre nella pratica, ossia in un codice formale, le sue riflessioni. In diversi si riunirono, grazie a Philip Johnson e Mark Wigley, al MoMA di New York nel 1988 per la mostra Deconstructivist Architecture. Tra gli «anarchitetti» presenti, oltre a Eisenman e Tschumi, Zaha Hadid, Frank Gehry, Coop Himmelb(l)au. Per Derrida nessuno di loro poteva elevarsi a essere definito un architetto decostruttivista, ma forse nessuno era interessato seriamente a esserlo. Rispetto poi alle accuse di formalismo e di «inospitalità» che ricevettero le varie architetture prese ad esempio della nuova tendenza, Derrida non vi diede mai ascolto, assumendo una posizione distaccata, se non divertita. Il suo disinteresse per le critiche era analogo a quello che egli stesso rivolgerà alle poetiche oggetto delle critiche medesime. La sua attenzione è tutta indirizzata, come testimoniano i suoi numerosi interventi pubblici raccolti nel volume, a reperire le infinite differenze e tracce con le quali si articola la scrittura dell’architetto come del filosofo. «C’è una cosa che molti architetti condividono oggi – disse in una discussione presso la Columbia University, nel 1992 –, quella che io chiamo la spinta verso la dissociazione, o verso la disgiunzione». Se lo spazio politico coincide con la città strutturata da un’autorità il cui potere s’incarna nell’architettura, l’autentica sfida del pensiero per scardinarlo è provare a «cambiare le norme». È Derrida stesso a suggerire l’ambito: ad esempio «nell’architettura sperimentale o nell’edilizia sociale». Con esplicito riferimento a Benjamin, la «distruzione delle norme» è qualcosa degno di «barbari buoni», i soli capaci di aprire inattesi orizzonti del pensiero.

La decostruzione rivolta all’architettura «delegittima i canoni» e ha un’identità aperta perché non è riconducibile a un concetto, a una tecnica o a un sistema di regole. Rappresenta una necessità e si protende «dal building a tutto il resto»: letteratura, cinema, arte. «Mescolare» l’architettura con le altre discipline per creare nuovi eventi è ciò che qualificherà la transdisciplinarità di Tschumi, ma in modi diversi connoterà anche gli edifici di Libeskind o di Eisenman, tutti impegnati a ricercare nuovi significati ma a non deciderne nessuno, pena la fine del processo decostruttivo – reso infinito alla ricerca dell’oggetto misterioso dell’architettura: solo in apparenza troppo visibile.