La Trump’s bubble si sgonfiò in un giorno di dicembre del 2017, ricorderanno gli storici. Il presidente bianco dei bianchi incredibilmente messo ko da elettori neri e ancor di più da elettrici nere. Ma davvero la «bolla Trump» – come l’ha definita il Washington Post – s’è afflosciata ieri in Alabama? Ed è effettivamente una bolla?

Può essere un eccesso di ottimismo saltare alle conclusioni, dopo un voto locale, dare per finito Donald Trump e consegnarlo già ai libri di storia. Ma indubbiamente nell’esito delle elezioni suppletive nello stato più conservatore del sud ci sono tutti gli ingredienti di un processo rapidamente disgregativo del fenomeno incarnato dal tycoon di Manhattan.

Roy Moore, il candidato repubblicano sconfitto martedì, è, in formato locale, una specie di Trump, un Trumplike. Accusato di molestie nei confronti di donne adolescenti, campione di un conservatorismo che sconfina nel suprematismo bianco e nel razzismo, era stato scaricato dall’establishment repubblicano di Washington, dopo le rivelazioni sui suoi trascorsi di molestatore pedofilo. Ma ecco che Trump, spalleggiato da Steve Bannon, decide di sostenerlo nella corsa per occupare il seggio lasciato libero da Jeff Sessions, l’inetto e bigotto ministro di Giustizia, peraltro detestato dal presidente per non avergli fatto scudo all’esplodere del Russiagate.

Trump vede nel voto in Alabama un test e una sfida: per verificare quanto regga la sua base elettorale (qui fu votato dal 60% degli elettori) anche di fronte a una proposta indecente come la candidatura di Moore e per mettere in riga, con un successo, i capi repubblicani riottosi, e dare una lezione ai liberal, che cercano di inchiodarlo agli episodi di molestie sessuali per chiederne l’impeachment. Il calcolo si basava sull’assunto che l’elettorato nero – il 25% dello stato – avrebbe in maggioranza disertato le urne, come di solito fa in queste elezioni. Non questa volta. Obama si è mobilitato con appelli al voto, così come molti leader neri, la Naacp, Jesse Jackson, la stessa Condi Rice.

Si capovolge, proprio in uno stato come l’Alabama, il teorema di un’America che, con Trump, volta le spalle alla società aperta e “multi”, alla correttezza politica, per dare ascolto alla sua componente bianca più retriva e rancorosa, razzista, xenofoba e misogina, fino a consegnarle le chiavi stesse della Casa Bianca. Non si sottovaluti quello che è successo con l’elezione di Trump ma è anche il momento di valutarne la portata effettiva e le possibilità di rovesciarne il corso.
La sconfitta in Alabama non solo assottiglia pericolosamente il vantaggio repubblicano al senato – 51a 49 – ma annuncia altri capovolgimenti a favore dei democratici nelle elezioni di medio termine del prossimo anno. Tutto questo rende ancora più fragile la posizione di Trump, in particolare di fronte al montare delle denunce che già lo portarono quasi fuori gioco nel tratto finale della sua corsa presidenziale.

Nel clima di questi mesi, dopo l’esplosione del caso Weinstein, con il crescere di un movimento di opinione che non sembra fermarsi e che, in tutta evidenza, mira alla Casa bianca, Trump appare sempre più esposto. Sono ormai numerose le prese di posizione perché siano prese sul serio le accuse di molestie che gli vengono rivolte e perché il Congresso apra un’inchiesta. La stessa Nikki Haley, ambasciatrice all’Onu e dunque tra i massimi esponenti dell’amministrazione, sostiene che vanno ascoltate le donne che accusano Trump di molestie.

A rendere più complicata la situazione del presidente repubblicano è lo scontro nel suo campo, come tipicamente avviene dopo una dura sconfitta, che ha il sapore di una resa dei conti. Nonostante l’allontanamento dalla Casa bianca, l’anima nera del trumpismo, Steve Bannon ha condotto la strategia in Alabama, con l’idea di gettare le basi di un “partito” del presidente in grado di portare propri candidati alle prossime elezioni, mettere fuori gioco quelli dell’establishment repubblicano, e creare due gruppi parlamentati di ultraconservatori fedelissimi al capo. Fallita quest’operazione, Trump non dispone più di pretoriani e deve vedersela con un Partito repubblicano interessato alla propria sopravvivenza – e dunque al mantenimento della maggioranza nel voto del prossimo novembre – più che a quella del presidente.

La coabitazione tra il presidente e il Grand Old Party – difficile e a tratti apertamente conflittuale fin dalla nomination – è ancora possibile?