Definire il lavoro oggi è il problema più importante. Esiste un uso lavorista del concetto che si presta al ricatto: ricevere una retribuzione, o un «reddito», a condizione di svolgere un lavoro qualsiasi, anche se questo è inutile o nocivo. Lavorare, ad ogni costo, attesta l’impegno morale dell’individuo a non farsi trattare un lazzarone, schizzinoso, free-rider o «neet».

ESISTE UN ALTRO USO del concetto di lavoro: quello neoliberale. In questo caso, l’emancipazione passa dalla valorizzazione del «merito» individuale sul mercato. I due approcci si intrecciano in combinazioni inattese sullo sfondo di una condizione comune: la crescita impetuosa del lavoro gratuito, sottopagato, iper-precario che con Marx si può definire «pluslavoro assoluto».
Si tratta dell’estrazione del valore da un’attività produttiva (anche su facebook) al di là del rapporto fondato sullo scambio tra salario e vendita della forza lavoro. Prospettive diverse che si accordano su un obiettivo: fare crescere a ogni costo l’occupazione – relitto della mentalità industrialista in un’economia finanziarizzata – affinché il governo di turno possa dire che una riforma del mercato del lavoro, o il marketing politico sull’ultimo decreto, funzionano.

IN QUESTO SCENARIO Domenico De Masi pubblica il monumentale Il lavoro nel XXI secolo (Einaudi, pp. 819, euro 24), libero dalle malposte provocazioni sul lavoro gratuito contenute nel precedente Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati. Da questo volume emerge il profilo di un sociologo che si è formato sui libri di Alain Touraine, critico dell’industrialismo e dell’alienazione del lavoro salariato, consapevole del ruolo occupato oggi dalla soggettività nella produzione, sensibile alle ragioni dell’ecologia critica e alle trasformazioni del ruolo dei movimenti sociali, della rappresentanza politica e sindacale.

I PUNTI DI MAGGIORE interesse di questo affresco di storia dell’umanità sono due. Il primo è che il lavoro è un prodotto storico. Ciò che in un tempo è ritenuto produttivo, o improduttivo, in un altro può non esserlo. De Masi suffraga questa tesi con l’analisi della transizione del lavoro dalla società industriale a quella postindustriale.
Il secondo elemento di interesse emerge già dalla sintesi esposta sulla copertina del libro. «L come lavoro – si legge – Un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna. Ma che nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa». L’obiettivo è quello indicato da Marx, da alcuni dei suoi antesignani e da alcuni discepoli (il genero Paul Lafargue, ad esempio): la liberazione dal lavoro (salariato), la creazione di una società che non considera l’ozio come una colpa morale o attività riservata a una classe di ereditieri, ma come l’attività liberata dalle leggi del profitto.
Nel XXI secolo questa liberazione non si realizzerà grazie al capitalismo, ma attraverso la liberazione dal capitalismo. Non saranno le macchine a permetterlo, ma un loro uso diverso basato sulla cooperazione tra gli uomini e quella con le macchine al di là della proprietà.

PRODUZIONE, RIPRODUZIONE e redistribuzione del valore prodotto dalla «macchina combinata» composta dalla nostra forza lavoro e dall’algoritmo: questa è la tesi alternativa alla fede teologica nel positivismo tirato a lucido che percorre gran parte della copiosa produzione sul capitalismo digitale. E, in fondo, questo è il problema del comunismo in un mondo dove la produzione dei dati e la loro valorizzazione privatistica sono centrali
Il libro di De Masi è fiducioso nelle prospettive miracolistiche della rivoluzione digitale raccontate da una narrazione futurologica rilanciata anche dall’industria editoriale italiana.

CIÒ CHE SI CONSIDERA una realtà acquisita – il verbo dell’ideologia californiana per cui le macchine sostituiranno il lavoro umano – è in realtà una prospettiva molto sfumata e incerta messa in dubbio dalle ricerche più innovative. Il ruolo delle tecnologie capitaliste non è quello di assorbire lavoro, ma di sfruttarlo più intensamente, 24 ore su 24, senza nemmeno chiamarlo «lavoro». È una differenza enorme che può cambiare l’interpretazione della trasformazione in corso.
Il Lavoro nel XXI secolo non offre molti spunti sul modo in cui queste credenze vanno decostruite, anche se invita a immaginare un’esistenza non più centrata sul lavoro, o sulla sua mancanza. È già qualcosa in un momento in cui il lavoro è inteso come l’alternativa allo sfruttamento, mentre è una merce e, in quanto tale, la sua premessa e destinazione.