Ci si imbatte, a volte, in figure sulle quali ci si scopre reticenti nell’abbozzare un discorso critico: autori e autrici iconoclasti, irriverenti per scelta di vita, che si sono presi gioco di tutto e di tutti. Parlarne suggerisce la possibilità di ritrovarseli davanti con la loro risata demolitrice, capace di mandare all’aria tutto ciò che si è cercato di mettere insieme su di loro. È una considerazione che viene in mente non appena si prendono in mano le poesie di Nicanor Parra, il cui rapporto con il mondo delle lettere è sempre stato ludico e impertinente: a cominciare dal genere in versi che inaugurò, i Discursos de sobremesa, da recitare in occasione di cerimonie pubbliche, per esempio il famoso Mai mai peñi, preparato per il Premio Juan Rulfo nel 1991.

L’uscita di una antologia italiana finalmente corposa, L’ultimo spegne la luce (testo a fronte, traduzione e cura di Matteo Lefévre, Bompiani, pp. 432, € 20,00) induce a affrontare questo «antipoeta», che rappresentò uno snodo cruciale della poesia in lingua spagnola del Novecento.

Nato nel 1914 e cresciuto nei sobborghi di Chillán, Nicanor Parra era il primo dei nove figli di un maestro rurale che fu anche geniale musicista nonché alcolizzato, e di una sarta vittima di quella genialità. Appena adolescente, se ne andò da solo a Santiago e grazie alle sue qualità finì per frequentare un dottorato in cosmologia a Oxford, specializzandosi in relatività e indeterminazione, e passando poi all’insegnamento, che avrebbe mantenuto per cinquant’anni.
La stagione della maturità

La familiarità con le teorie della fisica non sarebbe affatto stata estranea allo sviluppo della sua poetica, che ne rivela infatti tracce disperse, soprattutto nella forma peculiare di distanziamento che Parra sperimenta separando voce poetica, oggetto del versificare e destinatario, un distacco che gli permette di giocare costantemente su più piani, disorientando il lettore e instillandogli il dubbio sulla reale esistenza di un mondo che perde via via i suoi contorni abituali.

Tutta l’opera di Nicanor Parra, dal 1954 fino alla morte nel 2018, si pone l’obiettivo di approdare a una parola poetica essenziale, passando attraverso la demolizione del suo uso abituale, come spiega Matteo Lefèvre nell’introduzione alla sua pregevole versione italiana. Smantellare una traiettoria consolidata, che in Cile portava i nomi inattaccabili di Gabriela Mistral, Pablo Neruda e Vicente Huidobro, non fu impresa facile: Parra la condivise all’inizio degli anni Cinquanta con un gruppo di scrittori più giovani, che lo accompagnarono in questa avventura. Il libro capitale del 1954 – Poemas y antipoemas – non è infatti il gesto dissacratorio e inaugurale di un giovane ribelle, ma l’irruzione programmatica di un uomo maturo, che nel Manifesto del 1962, avrebbe dichiarato guerra aperta alla «poesia del piccolo dio / la poesia della vacca sacra / la poesia del toro furioso». Quel gesto sarebbe rimasto tuttavia inefficace, come un tardivo riapparire dell’avanguardia, se non fosse riuscito a incidere in profondità sulla parola poetica: Parra riuscì nell’intento, provocando una trasformazione dalle conseguenze formidabili.

La liberazione della parola poetica si era avviata con le avanguardie storiche degli anni Venti, che in Cile avevano avuto la loro manifestazione più eclatante nel «Creazionismo» di Huidobro: ma il soggetto del suo Altazor, poema in sette canti e una prefazione pubblicato nel 1931 (che attende ancora una traduzione italiana completa) rimaneva il «piccolo dio» che riteneva di potere ricostruire un mondo frammentato e disperso con la forza della poesia. Quando quel progetto venne meno, le voci dominanti rimasero quelle del «toro furioso», il Neruda vate del Canto General, o il poeta didattico delle Odas elementales, o quella intimista delle ultime raccolte di Gabriela Mistral. Con un libro solo Parra fece piazza pulita di tutto, e si indirizzò verso due funzioni per lui cruciali della parola poetica: il suo valore comunicativo elementare, legato all’oralità, e quello di segno materiale.
Un’antimateria poetica

La ricerca della relazione con un’oralità primaria si collega da vicino al lavoro che sua sorella Violeta aveva cominciato, con risultati memorabili, per il recupero della musica popolare: in questo senso, le «antipoesie» di Parra non rappresentano solo l’opposto di una «poesia» di tipo tradizionale, una sorta di «antimateria» speculare a quella conosciuta, ma – come scrive uno dei suoi interpreti più acuti, Julio Ortega – esse sono «il risultato di una complessa strategia formale che non si spiega con genealogie letterarie, e che, in una pratica di riappropriazioni e decostruzioni, diviene il campo verbale di esplorazioni, rotture e riaffermazioni».

Parra usa così tutte le forme del parlare quotidiano, antiche e moderne (il proverbio, la conversazione di strada, la festa, il sermone, la pubblicità) e le trasforma nel dialogo ininterrotto con un lettore che viene chiamato, provocato, scandalizzato fino al parossismo: invitato a salire su quelle «montagne russe», il lettore deve correre il rischio di ridiscenderne «sputando sangue da bocca e narici».

Solo César Vallejo aveva tentato una stradam simile, partendo dalla parola marginale di un soggetto migrante nell’Europa degli anni Trenta; ma il suo era rimasto un tentativo isolato, mentre la scelta di Parra fu in grado di influenzare tutte le generazioni successive, in Cile e in America Latina, aprendo una stagione di poesia colloquiale che avrebbe trovato innumerevoli adepti, da Enrique Lihn a Ernesto Cardenal, da José Emilio Pacheco a Mario Benedetti.
Quella strada sposta il luogo della poesia nella strada, nella piazza, nello spazio pubblico, e rappresenta, come dice ancora Ortega «il più vivo e permanente documento della capacità di sopravvivenza del soggetto ispanoamericano in questa modernità disuguale».

Eppure essa non diviene maniera né gesto ripetitivo, in Parra così come negli altri. Si rinnova infatti in continuazione, riproponendosi sempre diversa di fronte alle ideologie che cambiano, alla religiosità consolatoria, alle tragedie della politica latinoamericana, con quella voce antiautoritaria che la contraddistingue. A volte si maschera dietro figure reali, come quella di un predicatore ambulante del Cile dei decenni precedenti, il Cristo di Elqui, la cui natura di fool gli permette di far sentire la sua voce anche negli anni oscuri della dittatura di Pinochet.

La parola poetica di Nicanor Parra diventa però anche un segno concreto, a partire dalla fine degli anni Sessanta – epoca di enormi tensioni sociali e politiche in Cile – con la produzione degli Artefactos, segni di una estrema volontà di comunicazione, capace di oltrepassare i limiti di un linguaggio imposto dall’alto. Oggetti obsoleti, rotti, recuperati dalla discarica del consumismo, venivano raccolti da Parra che aggiungeva loro un testo, costruito con slogan pubblicitari, frasi fatte, a volte banali, sovrapponendole in una combinazione sovversiva e spiazzante. «Succede qualcosa di simile quando si entra di notte in una città moderna – scrive Parra – quando uno viene del nulla e i segnali luminosi lo riempiono, lo fanno vibrare, vivere, e uno va de un segnale all’altro, ed ogni segnale è come una puntura sul midollo. Si tratta di toccare punti sensibili del lettore con la punta di un ago, di elettrizzarlo perché muova un piede, un dito o giri la testa. È come vendere una merce, una merce di altra natura, di grande utilità per il lettore, per la sua vita».

Il valore più sconvolgente della parola come segno materiale lo raggiunse nei Quattro Sonetti dell’Apocalisse del 1985, perfetti nella loro architettura metrica, composta solo da croci messe una in fila all’altra.
Negli anni Novanta Parra cominciò a vedere riconosciuta la sua opera da un numero impressionante di premi, accumulati nella sua lunghissima vecchiaia, e ricevuti con un misto di ironia e vanità istrionica, premi che comunque non avrebbero impedito alla sua scrittura di prendere ancora un’altra direzione, in quegli Ecopoemas (la prima edizione risale al 1982) che suonano oggi di terribile attualità: «L’errore fu / di credere che la terra era nostra / quando la verità delle cose / è che noi siamo della terra».