Il profilo ascetico di André Gide (1869-1951) sembra avere incarnato tutte le inquietudini che hanno contrassegnato la prima metà del Novecento. Figura di rilievo dell’intellighenzia francese, fondatore e direttore della «Nouvelle Revue Française», Gide fu una vera e propria istituzione. Interpretò, con piglio sicuro e aderente a una natura libera e anticonformistica, alcune suggestioni fondamentali del cosiddetto «secolo breve» senza farsene, al tempo stesso, irretire. Dotato di un’autonomia di giudizio non comune, dimostrò una versatilità che gli permise di affrontare svariate tematiche, adeguandole a un temperamento e un’indole mai pacificati: «Non mi sono saputo sistemare nella vita. Sempre seduto di traverso, come sul bracciolo di una poltrona; pronto ad alzarmi, andarmene».
I generi più disparati
La sua opera si può considerare un’immensa autobiografia, rifratta attraverso i generi più disparati: dal romanzo al racconto, dalla poesia al trattato, dal saggio alla testimonianza, dall’annotazione diaristica alla pièce teatrale. Ma i generi per Gide non sono altro che maschere, paludamenti escogitati da un guitto per parlare di sé stesso, delle proprie idiosincrasie e dei propri incantamenti. Seguace di Mallarmé e dei suoi «martedì» letterari, Gide esordì all’insegna del simbolismo pubblicando Les Cahiers d’André Walter (1891), prose poetiche traboccanti di sentimentalismo misticheggiante, cui seguiranno Il trattato di Narciso (1891), Il viaggio d’Urien (1893) e Paludi (1895). Amico e sodale di Pierre Louÿs, si svincolerà in seguito dal retaggio simbolista per approdare a una narrazione implicante un’adesione alla realtà caratterizzata da costante introspezione, con presupposti di carattere etico o religioso che acquisteranno valore paradigmatico, spesso contrassegnando il gusto di un’epoca.
A tal riguardo basterà citare qualche titolo esemplare: Incontro con Oscar Wilde (1910), in cui viene affrontato il tema dell’omosessualità; Numquid et tu? (1926), frammento diaristico che descrive la tentata conversione al cattolicesimo; Viaggio al Congo (1927) e Ritorno dal Ciad (1928), libelli contro il colonialismo e lo sfruttamento dei nativi nell’Africa equatoriale; I nuovi nutrimenti (1935), testimonianza relativa all’adesione al credo comunista; Ritorno dall’URSS (1937), in cui vengono prese le distanze rispetto all’ortodossia sovietica. E si potrebbe continuare all’infinito, essendo la produzione di Gide talmente ricca e articolata che non nominare altri titoli è come rendere torto alla sua memoria.
Dopo la recente edizione del ponderoso Diario in due volumi, definito «l’apoteosi del suo egocentrismo», Bompiani ripropone adesso uno dei libri-chiave di Gide, Se il grano non muore («Tascabili Narrativa», pp. 338, € 14,00), a cura di Piero Gelli. Si è recuperata all’uopo la versione di Garibaldo Marussi allestita nel lontano 1947, ancora attuale nonostante qualche esito un po’ datato. Il libro, il cui titolo è ricavato da una frase del Vangelo giovanneo, è uno dei più importanti di Gide, apparso originariamente nel biennio 1920-’21. Si tratta di un lavoro memorialistico, il cui intento è ribadito dallo stesso autore: «Ma il mio racconto non ha altra ragion d’essere che la verità». E poco più avanti: «Scriverò i miei ricordi come vengono, senza cercare di ordinarli. Posso tutt’al più raggrupparli attorno ai luoghi, alle persone; la mia memoria non si inganna spesso sui luoghi, ma confonde le date; se mi costringo a rispettare la cronologia, sono perduto». Suddiviso in due sequenze, il libro si configura come un’autobiografia sui generis («non scrivo la mia difesa, ma la mia storia»): le vicissitudini dell’infanzia, riportate con dovizia di particolari nella prima parte, si contrappongono al tema della rivelazione erotica indagato nella seconda.
Giustamente Gelli sottolinea, nella prefazione, la vicinanza tematica di quest’opera al Diario stilato in quegli anni e al Corydon (1911) che, al suo apparire, non provocò lo scandalo temuto dall’autore: «Primo coming out della storia letteraria del Novecento, il saggio, che Gide continuerà ostinatamente a considerare il suo libro più importante, appare oggi noioso e desueto, sia nell’esposizione storico-scientifica dell’omosessualità, rintracciata in natura in ogni specie animale, quindi definita come istinto naturale, sia nella sua speciosa tripartizione: pederastia, inversione e sodomia».
Aspetti inconfessabili
Non è un caso che la stesura di Se il grano non muore sia coeva al rimaneggiamento di Corydon e che entrambi i titoli fossero licenziati in forma definitiva nel 1924. Le parti scabrose che contrassegnano alcuni passaggi costituiscono, più che una provocazione, una sorta di riflessione sugli aspetti segreti e inconfessabili dell’esistenza, spesso al limite del dicibile, vissuti con un rigore derivante dall’educazione puritana. L’onnipresente ambivalenza è resa da questo significativo passaggio: «Ero simile a Prometeo che stupiva si potesse vivere senza aquila e senza lasciarsi divorare».
Osserva ancora Piero Gelli: «Se il grano non muore non è un melanconico memoriale, una ricerca del tempo perduto, dietro il solco di Proust, ma nasce dalla necessità di fornire alla sua vita presente, la cui parabola gli appare pericolosamente incrinata, una significazione che metta d’accordo sincerità esistenziale e verità letteraria, alla ricerca di una probabile, possibile coincidenza». Nessun infingimento, dunque. Sulla falsariga di Rousseau e del Baudelaire intimo di Mon cœur mis à nu e delle Fusées, Gide intende bandire dalla sua narrazione ogni finzione, ogni orpello di derivazione letteraria, al fine di rendere la parola il più possibile contigua a una realtà sfuggente ma vitale: «non è la verosimiglianza che cerco, è la verità». Basta d’altronde pensare alla celebre asserzione «Famiglie, vi odio, porte sprangate, focolai spenti», contenuta nelle Nourritures terrestres (1897), per rendersi conto dell’acerrima opposizione, redatta con spirito cartesiano, alle convenzioni che governavano la società borghese dell’epoca. Per ribadire infine: «Del resto non ho grande inclinazione per l’elegia».