Economia

Comau venduta: la parabola calante senza innovazione

Comau venduta: la parabola calante senza innovazioneUn robot Comau – Foto Ansa

Industria La cessione a un fondo è l’ultimo tassello dei mancati investimenti che hanno azzoppato uno dei pochi giganti tecnologici italiani. Un ex dirigente: era un gioiello ma tagliando ricerca e sviluppo non poteva rimanerlo

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024

La notizia che Stellantis ha ceduto il 50,1% di Comau, azienda di automazione e robot, al fondo straniero One Equity Partners ha suscitato commenti e reazioni indignate. Comau è stato definito un gioiello italiano ad alta intensità tecnologica. È davvero così? Secondo un ex dirigente, che ha lavorato in Comau tra il 2000 e il 2010 per poi spostarsi in altre industrie che hanno investito su automazione di fabbrica e robotica, la vicenda non è che l’ultimo atto di un processo che ha radici lontane. Occorre prendere atto che: «Comau è stata sicuramente un gioiello, in passato. Ma per rimanere tali in questo settore occorrono continui investimenti in ricerca e sviluppo, cosa sempre più difficile, specie se, come in questo caso, la scelta strategica è quella di competitività sul costo. In tempi recenti Comau ha fatto molto bene nell’attrezzare le linee produttive di Tesla e di altri produttori di auto elettriche, ma non ha preso il treno dell’automazione in generale».

PER ANNI Comau è stato il principale fornitore di automazione di fabbrica per aziende come Mercedes, Ford, Gm prima ancora di quello che era il gruppo Fiat, poi ha lavorato per i coreani e dopo i cinesi. Comau ha anche provato a inserirsi in altri settori, dalla produzione robotizzata dei pneumatici, all’assemblaggio di parti di aerei, alla logistica di magazzino, ma per fare questa transizione servono investimenti importanti e continuativi, non qualche progetto sperimentale. Per esempio: «Una cosa semplice come un centro di distribuzione per i supermercati processa 10 mila ordini all’ora: quando costruisci una soluzione automatizzata, deve funzionare 24 ore al giorno per almeno 360 giorni l’anno». A fronte di mercati saturi, dove si costruisce una nuova fabbrica all’anno e con clienti sono molto più grandi e potenti di Comau, è chiaro che portare a casa margini importanti è sempre più difficile senza investimenti nella capacità industriale e tecnologica degli impianti e del personale. In queste situazioni, come ci viene spiegato: «Non ci si inventa questo mestiere con una manciata di progetti. Servono anni di investimenti, che evidentemente la proprietà non ha ritenuto prioritari».

LA FIGURA DI MARCHIONNE e la sua famosa frase «l’auto elettrica non è il futuro» è spesso utilizzata per stigmatizzare le scelte fatte. Quale ruolo ha avuto Marchionne in questa vicenda? Ciò che più conta è il modello o “regime” di creazione del valore, al cui interno le scelte del management sono una conseguenza. Da questa prospettiva, Marchionne ha svolto il suo ruolo egregiamente e cioè: «quello di massimizzare il valore per l’azionista di riferimento, a partire dall’azienda che si è trovato per le mani. Sicuramente ha proseguito su una linea di taglio degli sprechi, che poi significa costi in generale, che però finisce per “buttare via il bimbo con l’acqua sporca” quando va ad intaccare la capacità di innovare». Certamente, possiamo chiosare, la massimizzazione del valore per l’azionista, in quelle condizioni, non è stata la leva migliore per l’innovazione industriale.

TORINO E IL PIEMONTE si trovano così, per l’ennesima volta, al cospetto di un lungo funerale che pare non finire mai. La politica, locale e nazionale, ha accompagnato nel tempo la dismissione industriale, con scambi, patti e negoziazioni. Un cambio di passo può venire solo da un diverso ordine di priorità. Automazione e robotica oggi sono la base fondante di qualsiasi processo produttivo: «Non è nel turismo con una economia da rentier, dove pochi galleggiano grazie ai loro affitti, che Torino può avere un futuro. È a casa nostra che dobbiamo studiare e produrre, con una politica industriale che veda la ricerca al primo posto».

Tra le voci critiche, non è mancata quella del sindacato. Anche in questo caso, però, va notato che il peso dei sindacati è molto variabile. Lo stesso Marchionne, per esempio, a Detroit siglò un accordo con i sindacati dopo un conflitto molto aspro, mentre in Italia si sono cercate posizioni “diplomatiche”, per far contenti tutti, sempre intrise di piani “di cornice”, che hanno il grosso difetto di essere eccessivamente adattivi, troppo concentrati sulla riduzione del danno occupazionale di breve periodo. Così: «Ti trovi le fabbriche che mandano in cassa integrazione o che poi chiudono. Anche in Cina e Francia ho visto approcci forti da parte del sindacato, basati sul conflitto ma con un mutuo guadagno complessivo di lungo periodo. Un’idea potrebbe essere quella di eliminare il meccanismo della cassa integrazione: così il conflitto tra le parti sarebbe chiaro, di fronte a tutti, e richiederebbe un vero accordo tra interessi diversi».

CIÒ CHE ACCADE in altri Paesi indica la possibilità di strade diverse. Cina e Stati ci insegnano l’importanza di investire in strategie industriali di lungo respiro basate sulla creazione di settori industriali con forte concorrenza tra le aziende. Per questo, però, serve uno stato forte e una politica autorevole, che non si riduca a invocare la difesa dell’interesse nazionale in chiave propagandistica e quando è ormai troppo tardi.

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