Vita e biografia sono a volte in relazione tra loro come un testo con l’originale a fronte, entità divise da tratti di penna e unite dalla maschera della memoria. Nel suo ultimo libro, Tredici modi di guardare (traduzione di Mariangela Magrì, Rizzoli, pp. 224, euro 20,00) Colum McCann consolida la sua reputazione di autore di racconti e riflette criticamente sul rapporto tra finzione narrativa e autobiografia, e su come la prima possa essere uno specchio, incrinato o fedele poco importa, della seconda.

Il titolo prende spunto dalla poesia «Thirteen Ways of Looking at a Blackbird» di Wallace Stevens, e inaugura un tipo di racconto obliquamente autobiografico, in costante equilibrio tra l’introspezione e la rappresentazione, ma non insensibile alla detection. La novella più lunga che apre la raccolta, rivisita senza pedanteria un incidente occorso all’autore nell’estate del 2014 a New Haven, quando il pugno violento di uno sconosciuto lo fece cadere a terra privo di sensi, con qualche dente e uno zigomo fratturati. Ripercorse poi l’accaduto in varie occasini, nel tentativo di scandagliarne le conseguenze fisiche e psicologiche. Ora, nel racconto che dà il titolo al libro, prende spunto da quello stesso fatto per addentrarsi nei meandri di una strana crime story – con tanto di indagini, ma piena di soliloqui e monologhi interiori – in cui ci è dato di esplorare la mente di un vecchio magistrato con problemi di deambulazione: «Le dita tamburellanti sul volante. Non credere che non ti veda, signorina. Solo perché procedo lento come la melassa non significa che non mi renda conto che ti piacerebbe tanto schiacciare a tavoletta, caricando già che ci sei anche la povera Sally, e trascinarci per tutta la 86ma agganciati al paraurti. Un po’ di rispetto, prego».

Lo humor che accompagna la descrizione della malattia ha talvolta toni e slanci filosofici, ma più spesso si presta a riflessioni che consentono di esorcizzare il male con il ricordo degli anni giovanili passati dal protagonista a Dublino, o la memoria della donna di una vita, Eileen Daly, «quel nome appoggiato dolcemente sulla lingua».

Malgrado l’ambientazione americana e i frequenti riferimenti ai luoghi della mente appartenenti all’Europa abbandonata, è tramite citazioni dirette e indirette che la scrittura rimanda costantemente all’immaginario irlandese. L’ombra di Joyce viene scomposta e ricomposta in mille cripto-citazioni che si rincorrono per tutto il testo, ma sono presenti anche Yeats, George Moore, le ballate tradizionali, elementi che donano al tessuto narrativo una collocazione idealizzata all’interno di un mosaico letterario di respiro.

La dislocazione spaziale è per McCann una costante: nel libro precedente, Transatlantic, ci aveva accompagnato in una traversata ideale dall’Africa all’America per poi lambire le coste occidentali dell’Irlanda, e infine riportarci negli Stati Uniti. Qui una Long Island innevata diviene lo scenario che ospita storie di mutamenti ineludibili e definitivi. Sono mutamenti tragici dell’esistente, come si legge nel racconto di una soldatessa che passa il capodanno in Afghanistan e attende fremente che arrivi la mezzanotte per poter chiamare a casa; o nella novella che ha per protagonista una suora irlandese emigrata in America, che torna in Inghilterra per poi avere un faccia a faccia col suo ex violentatore.

Come già le precedenti, anche quest’opera di McCann non è soltanto un collage narratologico che prova a ricomporre storie distanti e unite da un filo rosso ideale (in questo caso una riflessione profonda sui risvolti anche più oscuri di quel che contraddistingue l’umano), ma anche un caleidoscopio di usi linguistici disparati. Nell’originale si percepiscono la parlata irlandese e quella newyorkese, accenti yiddish, appartenenti a un inglese appreso come lingua della diaspora, o masticato nei territori detti «di contatto», con tutte le relative influenze creole. La traduzione rende merito a questa diversità giocando con repentini cambi di registro, e proponendo soluzioni lessicali, ma anche sintattiche, spesso felicemente stranianti.

La violenza, anche la morte, hanno nelle storie di McCann un che di sublime, di arbitrariamente fatale, ma al tempo stesso atteso con calma e pacatezza prive di rassegnazione. Da irlandese emigrato quale è, sa parlare del suo paese con lucidità e si spinge verso l’insondato, forte di una tradizione che ha fatto della perdita, dell’oblio, il suo scudo, ma anche la sua innegabile forza.