L’Africa è il continente in assoluto più esposto alla desertificazione e il 45% del suo territorio risulta ormai essere degradato (Unccd 2020). L’erosione del suolo può verificarsi in tutte le zone climatiche, ma le regioni aride, come quelle saheliane, sono particolarmente esposte a questo fenomeno poiché devono affrontare una combinazione di problematicità di vario tipo: naturali, come la scarsità d’acqua e l’irregolarità delle precipitazioni, e antropiche, quindi uno sfruttamento eccessivo delle risorse ambientali, un utilizzo del suolo non sostenibile e una pressione demografica in costante aumento.

TUTTO QUESTO MESCOLATO ASSIEME E CONDITO con una buona dose di povertà, fa sì che i mezzi di sussistenza dei due terzi della popolazione africana siano a repentaglio. Ecologo e membro del team di ricerca del Laboratorio di ecologia vegetale e idrogeologia dell’Università Cheikh Anta Diop (Senegal,un ateneo faro per tutta l’Africa Occidentale), il dottor Oumar Sarr conferma che gli effetti dell’avanzata del deserto sono visibili anche ad occhio nudo: «A Dakar è sempre più frequente vedere delle tempeste di sabbia, per questo è prioritario fare qualcosa e in tempi rapidi. Nel 2008 abbiamo realizzato una buona parte degli interventi previsti dalla Grande Muraglia Verde. Con i nostri studenti abbiamo riforestato centinaia di ettari con specie locali tolleranti al deficit idrico, piante che proteggono il suolo e che, contemporaneamente, aiutano la popolazione locale che ne usa la frutta e ne estrae l’olio. Questo perché con la Grande Muraglia Verde vogliamo anche contrastare l’insicurezza alimentare».

IN SENEGAL, LE FONTI DI SOSTENTAMENTO PRINCIPALI sono strettamente collegate al settore primario. Agricoltura, allevamento e pesca rappresentano una parte trainante del Pil nazionale e impiegano la maggioranza della forza lavoro, per questo la necessità di riabilitare le terre affinché possano essere coltivabili è vitale. La desertificazione e il degrado del suolo sono tra le principali cause della bassa produttività agricola in Senegal e stanno costringendo chi ha scarsi profitti a trasferirsi altrove per sfuggire alla povertà.

«Non è stato facile avviare delle attività di rinverdimento in queste zone del Paese, dove il vero problema è l’acqua: non potevamo di certo permetterci di innaffiare le piante mentre la gente soffriva la sete. Infatti, il cuore del progetto in Senegal è il Ferlo, una vastissima pianura saheliana confinante con la Mauritania, dove piovono a stento 300 mm acqua all’anno. Per la carenza di acqua e copertura vegetale, qua si pratica da sempre la pastorizia nomade, altre attività sarebbero impossibili. Inizialmente le comunità locali, i fulani o peul, non volevano che recintassimo le parcelle di terra che avevamo piantumato, perché nella loro tradizione le mandrie sono lasciate libere di pascolare e i recinti non esistono. Ma parlando con loro e spiegando che creare delle aree chiuse momentaneamente sarebbe servito per consentire alle piantine di crescere senza essere calpestate dagli zoccoli, è servito a fargli capire che quello facevamo era anche per loro», spiega Oumar Sarr.

«CON GLI ANNI, PURTROPPO, LE ATTVITA’ SONO diminuite», continua il ricercatore. «L’Agenzia Nazionale della Grande Muraglia Verde, l’ente principale che riceve i fondi per l’implementazione delle attività, non lavora in parallelo con le Università. La ricerca dovrebbe avere la possibilità di applicare i suoi risultati alla pratica. Serve coordinamento, sia nella parte della realizzazione che nel monitoraggio delle opere: non possiamo piantumare decine di ettari di terreno e poi andarcene. Vanno raccolti i dati, analizzati, commentati. Diversi progetti di ripristino riguardano proprio la riforestazione, quindi è importante seguire da vicino i tassi di sopravvivenza delle piante nei cinque-dieci anni successivi. Se non lo si fa, si rischia che l’intera piantagione scompaia mandando in fumo sforzi e finanziamenti. Il progetto della Grande Muraglia Verde è enorme e quindi serve un’organizzazione precisa di attività, tempi e risorse». Al 2019, i fondi interni mobilizzati in Senegal per questo progetto sono più di 18 milioni di dollari (Undds 2020).

AL DI LA’ DEL PROGETTO DELLA GRANDE MURAGLIA VERDE, la cura e la difesa per un territorio come il Senegal sono cruciali anche per una questione sociale. «Le piroghe cariche di migranti, perché ci sono? Perché i giovani non hanno lavoro. In Africa la gente ha sempre vissuto di agricoltura, ma se ai nostri ragazzi lasciamo un ambiente arido e degradato, cosa faranno? Migreranno. Ai nostri giovani va data la possibilità di lavorare qui, a casa loro. In aula vedo che molti miei studenti iniziano ad interessarsi di agroecologia, si rendono conto dell’importanza di questi temi, sono consapevoli. Ma in seguito al diploma il Paese non gli dà la possibilità di mettere in pratica quanto imparato e questo perché l’accesso alla terra è proibitivo, i costi sono elevati e le banche non consentono prestiti a chi non dispone di una assicurazione. Quindi i ragazzi rimangono con i loro bei diplomi in mano, mentre multinazionali locali e straniere per le quali l’agroecologia non è sicuramente una priorità, si accaparrano migliaia di ettari di terra fertile, impoverendola ed inquinandola», continua Sarr. «Il problema in Africa è che non abbiamo una società civile forte, in grado di esercitare una pressione compatta sulle multinazionali. Ed è colpa nostra. Prima di cedere le nostre terre e le nostre acque dovremmo ragionare, studiare i pro e i contro. Se implichiamo i giovani nel miglioramento del loro territorio, avranno una scusa in meno per partire».

E OUMAR SARR NON E’ L’UNICO A PENSARLA COSI’: «L’Unione europea prende le nostre risorse ma rifiuta i nostri figli», afferma tra la folla uno dei manifestanti scesi in strada in questi giorni per esprimere il suo dissenso all’ennesima concessione di licenze alla pesca industriale che sta depauperando gli stock ittici delle acque senegalesi (da Seneweb, 23.11.2020).

Terra, risorse e migrazione: la stessa storia che si ripete da anni, a ciclo continuo.