Senza andare a scomodare gli illustri studiosi che hanno per primi coniato il termine e condotto spedizioni di ricerca presso i popoli nei luoghi più reconditi della terra, John Harshberger e Richard Evans Schultes, ci proponiamo di evidenziare come, fino ai nostri giorni, sia viva una etnobotanica quotidiana.

L’etnobotanica è quella scienza che studia i profondi legami tra le piante e tutte le credenze, gli usi pratici e magici, le ritualità, i detti, i proverbi e il folklore popolare che dalla scoperta di queste piante si è nutrito e ampliato.

Il Mediterraneo è stato la culla di credenze e di ritualità intimamente collegate al mondo delle semine e dei raccolti. Tra i misteri più venerandi e seguiti, certamente quelli di Eleusi hanno goduto di maggior popolarità e la loro terminologia – la parola stessa misteri – è sopravvissuta nella nuova religione che ha soppiantato, assorbendoli, i culti politeisti preesistenti.

Il grano imbiancato dei sepolcri, nella Settimana Santa, è quello stesso grano la cui spiga veniva mostrata, con ogni probabilità, all’iniziato al termine delle cerimonie ad Eleusi. L’inno omerico a Demetra, la vicenda dello smarrimento di Persefone, il rifiuto di sua madre – in latino Cerere, radice della parola cereali – di permettere la rinascita delle messi fino al ritrovamento della Kore, sua figlia, è la celebrazione più sacra e più poetica del legame forte tra una civiltà intera e la coltivazione dei cereali. Demetra era furiosa per il rapimento da parte di Ade, si arrivò al compromesso che conosciamo, Persefone avrebbe trascorso parte delle stagioni sotto terra, il tempo necessario ai semi per riposare e germinare, il resto sopra la superficie della terra.

Pare che nelle chiese siciliane, molto dopo l’avvento del cristianesimo, si udisse ancora l’invocazione, durante le feste pasquali, Kore! Kore! Kore! era il richiamo antico, l’invocazione ripetuta della «fanciulla» perduta. Secondo il mito, proprio in Sicilia, dalle parti di Piazza Armerina, ad Aidone, sarebbe stata rapita mentre coglieva narcisi, giacinti e croco. Nei dolciumi a base di grani, pastiera napoletana per esempio, tutto ciò è sopravvissuto fino a noi.

Nelle campagne meridionali notiamo sui capitelli dell’ingresso di ogni pur piccola casa colonica delle belle agavi piantate in vaso. Quando non troviamo direttamente delle robuste paia di corna. Sono derivazioni, molto ripulite, dei culti fallici anch’essi in relazione con la fecondità della terra. Quelle punte rappresentano il concentrarsi dell’energia fecondatrice. I romani antichi disponevano nei propri orti simulacri di Priapo, un dio dal fallo smisurato il cui solo dondolare, per il vento, si diceva avesse il potere di tener lontani sia gli uccelli che i ladri.

Nel culto di Demetra, raffigurata con la spiga in mano e il melograno nell’altra, è la generazione delle messi il centro di tutto. Raichel Von Dolmatoff nel suo Il cosmo amazzonico studiando la ritualità dei Tukano, scoprì che essi ritenevano la Via Lattea una immensa emissione seminale. Dappertutto, culti della fecondità, culti della generazione si sono originati e susseguiti. I romani molto pragmatici come Catone, nel suo De agricultura, oltre a consigliare nei minimi dettagli come coltivare e mantenere in salute il proprio podere, abbondando in dettagli agronomici, peritandosi di enumerare quanti e quali piante da frutto impiantare, in fondo al suo libro non dimentica anche qualche incantamento e scongiuro utile contro la grandine ma anche contro l’involatio, ovvero il furto magico, per incantesimo, dell’intero raccolto.

Molto è sopravvissuto fino ad oggi, un tempo nel quale l’uomo dipende strettamente dalla sua terra (per mangiare, dunque ne siamo dipendenti anche se non la coltiviamo direttamente). Mi è stato raccontato che a Sormano, nel cuore del Triangolo Lariano, quando non pioveva da troppo tempo la comunità intera prelevasse la statua della Madonna e la calasse nel pozzo. Raccontava il mio alunno – a sua volta l’aveva saputa dal nonno – «se tutti ma proprio tutti uscivano di casa per questa processione, quando proprio l’ultimo valligiano fosse uscito, cominciava a piovere». Racconta lo stesso alunno che si usasse concimare, spargere il letame subito dopo la prima neve, fosse pure cominciato di notte. Avendo trovato, all’inizio della mia ricerca sul territorio, sempre la Valassina, un cetriolo molto particolare, non presente altrove, il miliun cyclanthera pedata, quello stesso alunno mi riferì che negli anni trenta del Novecento c’era un parroco, Don Francesco detto «stupidera» per le facezie che era solito raccontare, che el te dava minga l’assolusiun si te portava minga i miliun. Questi deliziosi cetriolini rampicanti poi abbiamo scoperto che sono arrivati da Colombia , Perù o Venezuela, là ne coltivano a tonnellate chiamandoli Caygua; si cucinano come le melanzane sott’olio o sott’aceto e sono deliziosi. Li abbiamo salvati e riprodotti, abbiamo saputo altri usi di quest’ortaggio: veniva impiegato per ricoprire i pollai proteggendoli dall’insolazione estiva. Non abbiamo mai scoperto chi abbia introdotto la coltivazione di questo bel cetriolo nella Valassina. Forse in pieno Novecento qualche emigrante di ritorno l’ha portato qui dal Venezuela. L’etnobotanica nell’orto c’è. Mia suocera diceva di non contare mai le piantine di prezzemolo o di basilico che germinavano, esattamente come non si devono contare le stelle nel cielo. E’ sufficiente ricordare la messe enorme di proverbi, detti popolari che riguardano le semine e la frutta, la luna e la pioggia, la neve e la maledetta grandine. Ciascuno, nel proprio orto, piccolo o grande che sia, quando coltiva con amore e rispetto della terra sta compiendo e sa di compiere, in ogni caso, un gesto nobile e sacro. Se è pur vero che il vomere dell’aratro, in qualche modo, ferisce la terra è pur vero che è solo per fecondarla. Un equilibrio armonioso, alieno da veleni e forzature genetiche, ci collega al grembo antico della Terra. In ogni caso, mettete un paio di vasi di agavi all’ingresso, come avrebbe detto Catone, male non fa e…non si mai.