Colson Whitehead, via dall’Underworld
Kerry James Marshall, «Slow Dance», 1992-1993
Alias Domenica

Colson Whitehead, via dall’Underworld

Scrittori statunitensi Il seguito del «Ritmo di Harlem», tre racconti ambientati a New York negli anni settanta e intrecciati fra loro da legami narrativi e storici: «Manifesto criminale», da Mondadori
Pubblicato circa un anno faEdizione del 17 settembre 2023

È tipico delle grandi metropoli dotate di una lunga storia proiettare un’immagine che includa quello che negli Stati Uniti viene definito l’Underworld – il lato oscuro della civile convivenza, il rovescio del tessuto sociale. In particolare, è difficile se non impossibile scindere New York City (vale per tutti e cinque i boroughs) dal suo volto criminale: come separare la città sull’Hudson dal Padrino, tanto per fare un esempio, o da quel magnifico fallimento che è Gangs of New York di Scorsese? Entrambi sono tentativi di raccontare una storia criminale della città, specialmente il secondo. Ma si potrebbe tornare ancor più indietro: alle origini di quella che allora era chiamata Nuova Amsterdam, quando gli olandesi si appropriarono dell’isola di Manhattan stringendo con i nativi Lenape un accordo che col senno di poi appare una truffa.

Nell’inglese parlato degli Stati Uniti la parola per indicare gli imbroglioni, i ladri, i malviventi d’ogni sorta è crook: la rese celebre Richard Nixon, quando cercò disperatamente di proclamare la propria innocenza nel 1974, mentre infuriava lo scandalo Watergate: «Well, I’m not a crook», fu la sua dichiarazione; ma non sortì un buon effetto. A quasi cinquant’anni di distanza, Colson Whitehead ha pubblicato un Crook Manifesto, appena tradotto da Silvia Pareschi (che ha dovuto affrontare la non facile impresa di rendere la parlata afroamericana nelle sue diverse sfumature) con il titolo Manifesto criminale (Mondadori, pp. 384, € 22,00): non un saggio storico, politico o sociologico – sebbene in più momenti ci si avvicini – bensì un’opera di narrativa, la seconda parte di Il ritmo di Harlem.

In entrambi i casi sarebbe fuorviante parlare di romanzo, perché ciascuno dei due volumi consiste di tre romanzi brevi interconnessi, ambientati ognuno in un diverso anno della storia americana. In Manifesto criminale abbiamo, «Ringolevio» (nome di un gioco infantile di strada statunitense), che si svolge nel 1971; «Nefertiti T.N.T.» (titolo di un film immaginario di blaxploitation girato ad Harlem) ambientato nel 1973; e «I liquidatori», che ci porta nella New York del 1976, tra incendi accidentali e altri premeditati a scopo di truffe assicurative e di speculazioni edilizie. Con le sue storie dell’Underworld nero – fatte cominciare nel 1959, data del primo episodio del Ritmo di Harlem – Whitehead ha già coperto quasi vent’anni di storia americana, rendendo il contesto, soprattutto nelle tre parti di Manifesto criminale, quasi materialmente tangibile.

Nella parte intitolata «Ringolevio» lo scrittore americano racconta come Carney, il protagonista della serie, viene sequestrato da un poliziotto di nome Munson (già apparso in un ruolo secondario nel Ritmo di Harlem), del tutto corrotto e pronto a qualsiasi nefandezza. Il detective è sotto inchiesta, e nel corso di una notte brava vuole intascare abbastanza soldi, tra una rapina e un furto, per potersi ritirare in qualche paradiso fiscale al riparo dalla giustizia americana: Whitehead chiarisce al lettore come quelli siano gli anni in cui il poliziotto Serpico, immortalato dal film omonimo di Sidney Lumet, lottava disperatamente contro la corruzione della polizia di New York, e rende Muson quasi un’incarnazione del bad cop (se non un avatar del Cattivo tenente interpretato da Harvey Keitel in uno dei migliori film di Abel Ferrara). La parte seguente, «Nefertiti T.N.T», vede Carney lasciare la ribalta al suo amico Pepper, l’autentico duro, laconico malavitoso afroamericano che indaga sulla sparizione di un’avvenente attrice di colore dal set del film diretto da Zippo (anche lui un personaggio ricorrente, già apparso nel Ritmo di Harlem come fotografo pornografico, poi diventato regista underground – il tema della trasformazione è ricorrente nei due libri). Infine, nel capitolo «I liquidatori» Whitehead esplora il fenomeno degli incendi che colpivano ripetutamente i quartieri più poveri della New York anni Settanta (il decennio più oscuro della metropoli): anche qui Carney si trova affiancato a Pepper nella ricerca del responsabile del rogo che ha distrutto una palazzina abitata da neri e ispanici e messo in fin di vita un ragazzino.

Come già nel Ritmo di Harlem, anche in Manifesto Criminale Ray Carney è una sorta di hanging man, un uomo sospeso tra mondo di sopra (il suo onesto negozio di arredamento, la sua famiglia perbene, i rispettabilissimi anche se insopportabili suoceri) e mondo di sotto (la sua intermittente attività di ricettatore, il padre delinquente, le frequentazioni con Pepper e altri personaggi dell’Underworld). Tra una storia e l’altra, Carney si propone di passare definitivamente dalla parte della gente onesta e rispettosa della legge, ma ogni volta si ritrova travolto in qualche peripezia criminale che lo obbliga a ricorrere ai contatti e alle conoscenze ereditati da suo padre Big Mike, nonché ai principi di una vera e propria etica negativa del malavitoso. Per un afroamericano – sottintende Whitehead – è sempre stato difficile sopravvivere negli Stati Uniti senza violare le leggi, visto che alcune di esse erano mirate a tenere la gente di colore in uno stato di perenne minorità e servitù: se il gioco della società è truccato in partenza, barare diventa una necessità. In netto contrasto con la retorica Law & Order che ha dominato nell’America dei Reagan, dei Bush e anche in quella clintoniana, queste storie ben provviste di suspense, e non prive di humour, raccontano poco meno di vent’anni di storia dell’emancipazione della minoranza nera, dalla prospettiva di Harlem, luogo emblematico per eccellenza.

Quanto all’aspetto formale dei due volumi, con la loro triplice scansione in storie pressoché indipendenti, il cast di personaggi ricorrenti, la pletora di comprimari che si alternano intorno, Whitehead sembra avere abilmente importato nel romanzo l’architettura e le strategie narrative delle serie TV. Ognuno dei due volumi può essere letto come composto di tre stagioni, i cui capitoli equivalgono ad altrettante puntate – non a caso tra di essi sono stati disposti con gran perizia dei veri e propri cliffhanger, brusche interruzioni con un colpo di scena che mantiene viva l’attenzione. La serialità del bravo artigiano si coniuga quindi con una scrittura stilisticamente raffinata, e con un considerevole lavoro di ricerca, perché in fin dei conti in Manifesto criminale, come nel precedente Ritmo di Harlem, il giallo viene ibridato dal romanzo storico (accuratissima la ricostruzione delle marche e dei modelli di mobilio in vendita nel negozio di Carney, che a momenti sembra quasi di vedere).

Impossibile, leggendo queste storie, non pensare al poliziesco afroamericano di Chester Himes, così come ai romanzi di Walter Mosley. La coralità e la serialità ricordano, inoltre, i libri dell’87° distretto di Ed McBain (anche lui newyorkese come Whitehead, anche lui attentissimo agli addentellati etnici dell’Underworld e con uno sguardo mai superficiale sulla comunità afroamericana). E a tratti, specie nella seconda parte, l’indagine di Pepper riecheggia quelle dei private investigator di Hammett e di Chandler. Nella Harlem di Whitehead c’è tanta narrativa, dunque, quanta storia vera.

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