«Anche da morti i ragazzi portavano guai»: densa di antefatti, questa breve frase dà inizio al nuovo romanzo di Colson Whitehead, I ragazzi della Nickel (traduzione di Silvia Pareschi, Mondadori, pp. 213, e 18,50). Come nel precedente, premiatissimo La ferrovia sotterranea, Whitehead apre qui un’altra pagina nera americana, raccontando una storia di segregazione negli anni Sessanta. I ragazzi sono i minorenni che venivano mandati alla Dozier School for Boys, una scuola-riformatorio della Florida, aperta dal 1899 al 2011 e finita sotto indagine quando, tre anni dopo la chiusura, alcuni studenti di archeologia forense della University of South Florida ritrovarono decine di cadaveri senza nome sepolti in un cimitero segreto del campus. La scoperta avvalorò le accuse secondo cui il riformatorio era stato un vero luogo di tortura, dove si erano verificati omicidi e dove gli internati, soprattutto afroamericani, avevano subito abusi fisici e mentali, stupri di gruppo, mutilazioni e torture da parte dei dirigenti e dello staff.

Passaggio alla finzione
Anche da morti, i ragazzi destinati al riformatorio portavano guai: all’impresa immobiliare in attesa del via libera dopo la macabra scoperta e al procuratore costretto a riaprire le indagini su quelle storie di maltrattamenti. Mentre avverte in chiusura del romanzo che la sua è un’opera di fantasia, con personaggi mai esistiti, allo stesso tempo Whitehead invita i lettori a documentarsi, fornendo un’accurata bibliografia, inclusi i rapporti scientifici e giornalistici, con il sito internet dei sopravvissuti. Il passaggio dalla vicenda reale, circoscritta a un luogo e a un momento fattuali, a quella letteraria è uno dei punti di forza di questo bel romanzo che si fa racconto esemplare per restituire voce a chi non l’ha avuta e rendere partecipi tutti gli altri dei fatti accaduti, affinché non se ne perda il ricordo. La scuola era «solo un posto fra tanti», scrive Whitehead, «ma ce n’era uno perché ce n’erano centinaia» sparsi «per tutto il paese come fabbriche del dolore».

Nella finzione, la scuola si chiama Nickel e il protagonista principale è Elwood Curtis, un adolescente di colore di Frenchtown, il quartiere afroamericano di Talahassee in Florida, che finisce nel riformatorio per una circostanza alla quale è del tutto estraneo. Erano gli inizi degli anni Sessanta e le cosiddette leggi di Jim Crow venivano ancora applicate per mantenere la segregazione razziale nei luoghi pubblici, nonostante le proteste per i diritti civili cominciassero a farsi sentire anche nel piccolo mondo del ragazzo.

Il racconto di fantasia si intreccia continuamente – ed è questo un altro punto di forza del romanzo – con richiami al movimento di liberazione dei neri e ai suoi momenti più importanti: Rosa Parks e il boicottaggio degli autobus a Montgomery in Alabama, i sit-in, la marcia su Washington, l’approvazione del Civil Rights Act nel 1964, la sentenza che dieci anni prima aveva imposto la desegregazione delle scuole, permettendo a nove studenti neri di Little Rock di entrare per primi, nel 1957, in una scuola bianca. Elwood sembra appunto la proiezione di quei ragazzi: come loro ha a portata di mano la prospettiva di entrare al college per meriti scolastici ed è infiammato da desideri di giustizia sociale. Ha dodici anni, vive con la nonna Harriet, e non toglie mai dal piatto il disco che lei gli ha regalato, Martin Luther King at Zion Hill – il più bel regalo mai avuto, la guida verso «la sua edificazione», il «crepitio della verità» che lo fa sentire collegato alla lotta per i diritti nell’intero paese.

Figura volutamente idealizzata, Elwood incarna utopie e contraddizioni degli anni Sessanta. È affascinato dal pacifismo del Reverendo e dai reportage fotografici di Life, ma è anche un lettore di fumetti, e immagina il movimento dei neri come lo scontro fra «giovani cavalieri che lottavano contro i draghi». Elwood è un ragazzo diverso dagli altri, sogna un mondo giusto e si affida a educatori infallibili: la nonna che lo protegge dal suo quartiere, un professore di storia attivista, i giornali per neri e le riviste di attualità che legge nella tabaccheria dove lavora dopo la scuola, un’innata fiducia nel potere emancipatorio dell’istruzione. La sua storia è una vicenda comune alla sua gente.

Come Cora, la protagonista della Ferrovia sotterranea, Elwood è stato abbandonato dai genitori, che nella fuga hanno scelto la loro forma di protesta. I suoi antenati più prossimi sono stati vittime della segregazione: il padre di Harriet è morto in prigione per non aver ceduto il passo a una bianca, il nonno è morto per aver difeso un ragazzo da tre balordi. E il padre di Elwood era tornato incattivito dalla guerra, non per ciò che aveva visto al fronte, ma per come i reduci venivano trattati a seconda del colore della pelle: «una cosa era permettere a qualcuno di uccidere per te, e un’altra era permettergli di vivere vicino a casa tua». Elwood vuole rimettere le cose a posto. Le parole «piene di idee» di Martin Luther King danno «forma, espressione e significato» al codice al quale si attiene: «devi ricordarti chi sei», non vali «meno di nessun altro».

La sofisticata struttura del libro, il punto vista mobile che Whitehead controlla abilmente spostandosi da una prospettiva all’altra e da un piano temporale all’altro, fra gli anni Sessanta e l’oggi, si uniscono alla singolarità della lingua che da una parte sfiora il reportage giornalistico dall’altra si arricchisce di infiniti risvolti, disegnando un romanzo che traccia linee di continuità fra passato e presente nell’urgenza di opporsi all’amnesia storica.

Un mondo alla rovescia
La scuola-riformatorio Nickel è una sorta di mondo alla rovescia, dove comandano i corrotti. Come nel Lager raccontato da Primo Levi, a cui Whitehead sembra talvolta alludere, i criminali violenti «facevano tutti parte del personale», i meriti e i demeriti erano assegnati secondo l’arbitrio dei sorveglianti, l’incidente successivo nessuno poteva prevederlo. Si finiva alla Nickel per reati che Elwood non aveva mai sentito: simulazione di malattia, bighellonaggio, incorreggibilità, sfacciataggine nel cercare un rifugio caldo in un garage.

Trevor, l’altro protagonista principale, amico di Elwood, suo mentore e alter ego, lo educa a ciò che non si impara sui libri. «Qui dentro e là fuori è la stessa cosa», gli dice, «solo che qui dentro non si deve più fingere», «la chiave per sopravvivere è la stessa che serve per sopravvivere là fuori: devi guardare come si comportano gli altri, e poi devi imparare a girargli intorno come in un percorso a ostacoli».
In quella prigione dentro la prigione della società americana, il giovane nero si sforza di comprendere l’equazione del Reverendo King: metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora… ma anche in riformatorio «sei un ragazzo di colore in un mondo di bianchi». Del resto, ha scritto la poetessa afroamericana Claudia Rankine, un nero è un tragico stereotipo e porta guai per definizione: anche se il colpevole non sei tu, «you fit the description», corrispondi alla descrizione.