L’Arab Image Foundation di Beirut è una organizzazione no profit che archivia e si occupa di recuperare, preservare e divulgare la fotografia mediorientale, nordafricana e della diaspora araba. La basilare istituzione, ubicata dopo il 2016, nella sua rinnovata sede accanto al Sursock Museum e alla maggior parte delle gallerie d’arte contemporanee come Marfa’ Projects, Galerie Tanit, Opera Gallery, Sfeir-Semler Gallery, Ashkal Alwan, nella zona portuale della città, quella deflagrata con le esplosioni di qualche giorno fa.
NONOSTANTE I DANNI incalcolabili subiti e sebbene tre degli operatori siano ricoverati per le ferite riportate, ha salvato la vasta collezione che è un patrimonio identitario unico nel suo genere. L’Aif – pur danneggiata – ha trasferito i suoi server in uno spazio di archiviazione sicuro presso il Sursock Museum, su invito della direttrice Arida. I magazzini del Museo sono ancora solidi e sono aperti a qualsiasi organizzazione abbia bisogno di immagazzinare la sua collezione, il problema è che le banche hanno confiscato tutti fondi e ciò bloccherà la ricostruzione.
Fondata nel 1997, da Zeina Arida e dagli artisti Fouad Elkoury, Samer Mohdad Walid Raad e Akram Zaatari, possiede una collezione di oltre 600mila foto e documenti che raccolgono scatti di professionisti e di semplici appassionati che vanno dalla metà del XIX secolo a oggi, di generi e stili diversi, ripescati dagli album di famiglia, dalle fotografie industriali, dalle fototessere dei passaporti alle nature morte e ai nudi. L’Aif sopperisce all’assenza di archivi fotografici in Medioriente data anche dal fatto che molti studi fotografici hanno venduto le loro lastre di vetro, che sono state fuse per estrarne l’argento ed anche all’instabilità storica della regione e al lungo passato di diaspore migratorie. L’Aif ha già digitalizzato cinquantamila immagini dalla sua collezione, tra cui l’opera del più rilevante fotografo libanese Hashem el Madani (Sidone, 1928-2017) che, a vent’anni, fondò «Shehrazade», lo Studio aperto dove chiunque poteva entrare e posare davanti a uno sfondo neutro alle spalle.
MADANI HA CATTURATO immagini di coppie dello stesso sesso che si baciano, sposi novelli e cittadini sidonesi di ogni estrazione sociale, per evidenziare i cambiamenti culturali e politici del Libano. Nonostante la distruzione del suo studio, a causa dell’esplosione di una bomba nel 1982, l’artista ha continuato a fotografare il 90 per cento degli abitanti, sicché la sua opera è ricca di 75.000 immagini. Celebrato oramai dai più importanti musei internazionali per aver immortalato la società civile agli inizi degli anni Cinquanta, Hashem el Madani ha imposto le più anticonvenzionali pieghe dell’epoca.
LA PERSISTENZA dell’Aif, in un contesto così complesso e vituperato come il Libano, ha una importanza universale nel tramandare il vissuto di un popolo che da tantissimi anni, subisce le violenze dei conflitti bellici (la guerra civile del 1975-90) e gli abusi dell’occupazione militare israeliana nel sud del paese, tra spaccature e scissioni religiose, tra povertà e modernismo, fino al recente collasso economico a cui era precipitato il paese con il Covid prima dell’esplosione.
Proprio in questi giorni si apre la mostra The Eclipse of the (Fe)Male Sun al Tegelstochkolm di Stoccolma, in collaborazione con l’Arab Image Foundation, che è una raccolta di ritratti della metà del ventesimo secolo in Kuwait, Libano e Iran attraverso cui la cultura dell’immagine pre-moderna araba, iraniana e islamica riflette sorprendentemente il genderfluid e le relazioni omosociali come aspetti condivisi nella vita quotidiana. Tempo in cui le rigorose nozioni di sessualità binaria erano già superate, e grazie alle quali è possibile esaminare le trasformazioni dei canoni di bellezza e di genere, restituendo la memoria collettiva degli eventi del post-guerra, dei conflitti territoriali, delle guerre, dei movimenti di resistenza nazionali e degli ostruzionismi religiosi.
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INTERVISTA
Qual è la situazione del Sursock Museum, dopo i primi sopralluoghi?
Le finestre dell’edificio, compreso il caratteristico vetro colorato della facciata, sono state frantumate dall’esplosione e diversi elementi strutturali del palazzo risultano seriamente compromessi. Alcuni muri delle sale sono caduti e numerose opere d’arte hanno subito danni. Il legno intagliato a mano del Salon Arabe, importato da Damasco nel 1920, è stato danneggiato, strappato via dalla violenza della deflagrazione. Fra le opere rovinate – una ventina – c’è anche il ritratto del fondatore del museo stesso, Nicolas Sursock, dipinto da Kees van Dongen nel 1930 e i quadri di Georges Daoud Corm, tra gli altri. Infine, due manufatti in ceramica di Simon Fattal sono andati persi del tutto, irrecuperabili.
Dopo la crisi dovuta alla pandemia, e adesso con le distruzioni delle esplosioni, avete in programma attività a sostegno del museo?
Al momento stiamo ancora pulendo, cercando di riordinare, capire e valutando i danni. Certo, avremo bisogno di tutto il supporto possibile per poter restaurare il Museo e riaprirlo al pubblico.
È a conoscenza di altri danni subiti dal patrimonio?
Molti spazi culturali a Beirut sono stati investiti dall’esplosione e stanno contando le loro perdite, come la Arab Image Foundation, la galleria Marfa ‘ e la Tanit, Janine Rubeiz Gallery, Saleh Barakat Gallery, ecc. Anche il museo archeologico Aub non ne è uscito indenne. In una certa misura, tutte le istituzioni culturali di Beirut sono coinvolte, compreso il Museo Nazionale, sebbene situato abbastanza lontano dal luogo dell’esplosione. (a. di ge)