Il bilancio dello sciopero di venerdì scorso nel cantiere del terzo aeroporto di Istanbul è di 24 operai detenuti sui 401 arrestati dalla polizia. Dei 43 rinviati di fronte a una corte, 19 sono stati rilasciati a piede libero.

Per gli altri 24 (tra loro membri del sindacato) è stato chiesto il carcere, con accuse gravi: danneggiamento, violazione della legge (super restrittiva) sulle manifestazioni, violazione del diritto al lavoro. Tra le «prove» presentate dalla procura c’è un gruppo Whatsapp, battezzato «Gruppo della Resistenza».

La protesta era esplosa per le terribili condizioni di lavoro in cui 36mila operai sono costretti a operare e che il giorno prima dello sciopero si erano tradotte nell’ennesimo incidente (17 feriti). Un incidente che si aggiunge alle decine di morti bianche in un cantiere che è uno dei fiori all’occhiello delle grandi opere volute in questi anni dal presidente Erdogan: il terzo aeroporto di Istanbul è destinato a essere il più grande d’Europa, con una capacità di 90 milioni di viaggiatori l’anno. Per terminarlo si corre: l’apertura è prevista per fine ottobre.

E con la fretta peggiorano ulteriormente condizioni di lavoro già precarie : morti, infortuni, scarsa igiene nei dormitori e salari sospesi da sei mesi. Condizioni che ieri il padre di uno degli arrestati riassumeva così alla stampa: «Ci sono pulci nei dormitori e il cibo della mensa è immangiabile. Scioperavano contro la crudeltà. Lavorano 16 ore al giorno e solo metà dello stipendio è pagato sul conto corrente. L’altrà metà è in contanti».

In solidarietà con gli operai si muovono gli utenti dei social network, riuniti intorno all’hashtag #Koledegiliz (Non siamo schiavi). Si fa sentire anche la Confederazione internazionale sindacale che ha chiesto al governo il rilascio degli arrestati e all’azienda appaltatrice, la Iga, di rispondere «alle richieste urgenti e legittime» dei lavoratori.