Parafrasando il titolo di un celeberrimo romanzo di Philip Roth, si sarebbe tentati di leggere l’opera prima dello scrittore americano Patrick Flanery, Assoluzione (Garzanti, traduzione di Alba Bariffi, pp. 408, euro 18,60), come una sorta di «pastorale sudafricana». Storia di un’anziana scrittrice, Clare Wald, tormentata da sensi di colpa per la fine di due donne, la figlia Laura e la sorella Nora, entrambe vittime, seppur su fronti diversi, della violenza del regime ai tempi dell’apartheid, il romanzo sembra rimandare al capolavoro di Roth non solo per la rappresentazione della giovane terrorista e del suo difficile rapporto con la famiglia (qui in primo luogo con la madre), ma anche e soprattutto per la scelta di una narrazione condotta attraverso il confronto serrato tra due voci: quella del biografo di Clare, Sam Leroux, che cerca, al modo di Zuckerman, di far luce sugli enigmi che fanno da contrappunto alla vicenda principale, e quella della scrittrice stessa, che fornisce la sua versione dei fatti, a partire dai propri ricordi e da illazioni e congetture in margine ai diari della figlia, oscillando dal «tu» di un impossibile dialogo con la ragazza scomparsa, alla terza persona dietro cui si cela in uno scritto autobiografico del quale nel romanzo appaiono ampi stralci.
Il libro prende le mosse dal racconto del biografo, che descrive la propria difficoltà nell’intervistare l’indisponente scrittrice, suggerendo implicitamente un rimando alle interviste difficoltose di un altro biografo romanzesco, quello che in Tempo d’estate di J. M. Coetzee cerca inutilmente di far luce sulla personalità evanescente dello stesso autore sudafricano, che si immagina defunto. Del resto, l’attempata e irritante scrittrice al centro di Assoluzione ha più di un tratto in comune con un altro personaggio di Coetzee, Elisabeth Costello, la protagonista del romanzo omonimo, e molti recensori entusiasti, stupiti della sicurezza con cui Flanery, nato in California e trapiantato in Inghilterra, padroneggia il difficile ambiente sudafricano, non hanno lesinato i paragoni con uno tra i più riusciti lavori di Coetzee, Vergogna, leggendo nei due romanzi una analoga rappresentazione cupa e disillusa del post-apartheid.

E se i capitoli del romanzo di Flanery, in cui un autore onnisciente riordina il passato, fanno pensare piuttosto al Brink di Un’arida stagione bianca, l’infanzia di Sam, orfano di genitori attivisti morti in un attentato, sembra rimandare tanto a quella della Figlia di Burger protagonista del romanzo omonimo di Nadine Gordimer – un’autrice reale che molti critici hanno riconosciuto nella fittizia Clare Wald, come lei icona della narrativa liberal sudafricana – quanto alle peripezie del bambino protagonista di Piccolo fuorilegge dell’australiano Peter Carey. Autentico esempio di crossover literature, scrittura senza confini, che mette in discussione il concetto di letteratura nazionale, Assoluzione, lungi dal risolversi in una camera di echi della narrativa contemporanea, è uno dei quadri più intensi sui problemi del Sudafrica odierno, almeno fra quelli apparsi nell’ultimo decennio, e offre una complessa riflessione sul rapporto tra storia, memoria e rappresentazione, scevra dai cerebralismi della tarda postmodernità.

Il racconto si snoda attraverso il confronto tra le personalità del giovane biografo e della matura scrittrice e i loro frammentari ricordi, imprigionati in un passato di cui conservano un comune, dolorosissimo, segreto. Raccontare anche per sommi capi la trama di questo romanzo, che ha l’andamento di un thriller ricco di enigmi, segreti e colpi di scena, significherebbe rovinare il piacere della lettura. Studioso di cinema e sceneggiatura, con alle spalle qualche esperienza nell’industria hollywoodiana, Flanery costruisce una trama che rimanda, per sua stessa ammissione, a film come Amores Perros di Iñarritu o al classico Rashomon di Kurosawa. In questo modo, le differenti versioni di uno stesso evento traumatico prendono consistenza e si illuminano a vicenda, attraverso i ricordi, le sensazioni, ma anche le costruzioni mentali, le suggestioni, i sogni dei protagonisti, fino a condurre chi legge a dubitare dell’affidabilità della memoria e dei suoi meccanismi di auto-censura. Non per caso, nel corso del romanzo si fa più volte riferimento ai lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, il tribunale straordinario istituito in Sudafrica nel 1995 per raccogliere le testimonianze di vittime e esecutori di crimini commessi durante il regime dell’apartheid, allo scopo di ricostruire in maniera veridica la storia pregressa, non tanto per punire i colpevoli (ai quali, anzi, poteva essere concessa l’amnistia se rei confessi) quanto per tentare una riconciliazione tra bianchi e neri.

Mentre la rappresentazione dell’attuale realtà sudafricana offerta da Flanery, in cui i bianchi facoltosi vivono in una condizione di perenne stato d’assedio nelle loro case-fortezza, lascia intuire come la riconciliazione sia ben lungi dall’essersi realizzata, una fiducia residua, sebbene vaga si cela nel bisogno di confessare un crimine forse mai commesso e nell’ossessiva ricerca di assoluzione di Clare, attratta da quella promessa di «guarire attraverso la verità» su cui il progetto della Commissione si fondava.
Tuttavia, l’intreccio e il confronto delle versioni multiple e discordanti di una stessa storia, che costituiscono la struttura del romanzo, e le incongruenze, l’inattendibilità e le invenzioni della memoria, che ne sostanziano il contenuto, fanno sì che risulti impossibile raggiungere una verità assoluta, e con ciò approdare all’agognata guarigione. Il Sudafrica «dopo tutta la speranza degli inizi e l’aspettativa di una società destinata a trasformarsi, tramite una forza collettiva di buona volontà e amore disinteressato, in un modello di come il mondo avrebbe potuto essere … si è dimostrato un microcosmo di ciò che il mondo è veramente, la guerra di tutti contro tutti… un incubo reale di sfruttamento e corruzione e orrida bellezza che pare condannato a non finire mai».

Allo stesso modo, Clare, torturata dai rimorsi per le azioni e le omissioni, reali o immaginate, del passato, non trova in sé l’unica assoluzione che potrebbe darle pace, mentre Sam, tornato dopo molti anni a un paese in cui «nessuno era mai responsabile di niente, se solo era possibile dire la verità e soprattutto esprimere pentimento», rifiutando tanto di confessare il segreto sepolto nel suo passato quanto di pentirsene, non riesce a affrancarsi dal suo mondo di silenzi, false verità e bugie sincere. Entrambi personificazioni di quel senso di complicità involontaria e impotente che Flanery, in quanto americano, afferma di provare costantemente di fronte alle atrocità della storia globale, Clare e Sam, con le loro narrazioni imperfette, fondate su ricordi sfumati e a volte artefatti, ci portano non solo a riflettere sulla inaffidabilità del racconto e della memoria, ma anche a domandarci chi, in ultima analisi, abbia il diritto di raccontare, rivedere e riscrivere la storia.