La chiesa di Santa Maria ad Cryptas, così denominata per la presenza di grotte nelle sue vicinanze, dista circa un chilometro dal comune di Fossa in Abruzzo ed è abbastanza vicina al monastero cistercense di Santo Spirito d’Ocre da cui, nel Medioevo, dipendeva.
All’esterno si presenta con le tipiche disadorne pareti della chiesa cistercense ma al suo interno diverge dalla nudità tradizionale di questo tipo di architettura perché rivela pareti interamente affrescate e coloratissime.
Il programma iconografico all’origine concepito in modo unitario si può agevolmente ricostruire nonostante numerosi restauri e rifacimenti murari e pittorici, i più importanti dei quali dovuti ai danni di due forti terremoti, nel 1315 e soprattutto nel 1349. La chiesa fu gravemente danneggiata anche nel terremoto del 2009. I restauri si sono protratti per un decennio ma ora l’edificio sacro è finalmente riaperto al pubblico. È stata proprio questa circostanza a suggerire a undici studiosi di riunire i loro contributi in una monografia, fino ad ora mancante, dedicata interamente a Santa Maria ad Cryptas Storia, arte, restauri, curata da Michele Maccherini e Luca Pezzuto (Editori Paparo, pp. 232, e 25,00) che ne esamina la fortuna critica, l’architettura, la pittura, le sculture, le fonti archivistiche e i recenti restauri. Si presenta come uno svelto libretto, quasi tascabile, con 60 tavole a colori a piena pagina, assai nitide, precedute da un utile schema dei soggetti affrescati, arricchito con 81 figure quasi tutte a colori in dialogo con i testi.
Ad eccezione delle storie trecentesche della Vergine che occupano la parete sinistra, il primo e più importante ciclo di affreschi si stende, si può dire, su tutti i muri della chiesa, dovuto al pittore Gentile da Rocca, che si firma con la data 1283 in un trittico su tavola presente nella medesima chiesa e ora al Museo Nazionale d’Abruzzo a L’Aquila.
Nel vano absidale, sotto alla Deposizione di Cristo, vediamo inginocchiato e nel gesto dell’adorazione il committente Morellus con il suo stemma sullo scudo, convincentemente identificato con Morel de Sours, cioè «uno degli uomini d’arme provenzali fedeli alla dinastia angioina, che nel 1269 fu creato castellano di Ocre, ricordato per l’ultima volta nel 1283», seguito dalla moglie e da otto personaggi di dimensione inferiore, presumibilmente i figli (cito da Daniele Giorgi, Il progetto decorativo duecentesco di Santa Maria ad Cryptas, un contributo assai accurato che si preoccupa anche di riportare le tante scritte a commento degli affreschi, al quale avremmo desiderato fosse stato concesso più spazio).
Il ciclo del Genesi sulla parete dell’arco trionfale termina nella controfacciata con il Giudizio universale legando l’inizio dell’intervento divino sulla terra con la sua fine. Vediamo così sfilare la creazione del sole, della luna e degli astri, degli animali e il ciclo di Adamo ed Eva concluso con la loro cacciata dal Paradiso; poi ancora, santi e profeti, il «seno dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe» e il ciclo dei Mesi, purtroppo solo da luglio a dicembre (la prima metà fu certamente distrutta dai terremoti trecenteschi.) Nella controfacciata sono sistemati i soggetti che il fedele, lasciando l’edificio sacro, doveva tenere bene a mente secondo la pedagogia del terrore con cui la Chiesa guidava il suo gregge, insistendo non sulle gioie del paradiso, che di fatto anche a Santa Maria ad Cryptas mancano, ma sulle torture dell’inferno. Possiamo così osservare san Michele che pesa le anime, i corpi che risorgono, la separazione degli eletti dai dannati, Cristo giudice fra gli apostoli e l’inferno dove una serie di scritte si preoccupa di rendere evidenti le categorie dei dannati: ci sono ad esempio una meretrice e i giocatori d’azzardo.
Nel vano absidale Gentile da Rocca collocò le storie della Passione di Cristo a partire dall’Ultima Cena insieme a vari santi. È un pittore che ama usare colori piatti e vivaci, allungare le figure, trascurando volutamente ombre e prospettiva, senza rinunciare però ad esprimere con discrezione i sentimenti: si veda la bocca spalancata del flagellatore che colpisce urlando Cristo alla colonna, oppure il dolore di Malco a cui san Pietro sta troncando l’orecchio, tutto rannicchiato, con le mani in atteggiamento supplichevole.
Particolarmente attenta è la disposizione degli oggetti sulla tavola nell’Ultima Cena su cui desidero soffermarmi. Ci sono ben tre tipi di pane: tondo, a ciambella e allungato, due brocche, qualche coltello e tre piatti con il pesce, cibo altamente simbolico. Nel Medioevo il pasto del venerdì e durante la quaresima ingiungeva di mangiare solo pesce e ichthys (traslitterazione della parola greca per pesce) è l’acronimo greco per «Gesù Cristo, figlio di Dio Salvatore», usato dai primi cristiani per indicare il Redentore. Al centro della tavola è un grande calice, una presenza iconografica abbastanza rara, per ricordare il sangue che Cristo avrebbe di lì a poco versato.
Compaiono bene in vista anche dei porri di cui Gregorio Magno (Moralia in Job, PL 76,161) dà una interpretazione morale: «Cipolle e porri che fanno piangere rappresentano la difficoltà della vita presente, la quale, da chi la ama, sia è trascorsa non senza pianto, sia tuttavia è amata con lacrime». Giuda, più piccolo dei discepoli e senza nimbo, non siede con i compagni ma, in piedi, è dall’altra parte della tavola e sta per ricevere il pane che tuttavia con riverenza accoglie con le mani velate dal suo mantello. Quindi questa Ultima Cena è una rappresentazione particolarmente triste perché l’inizio del dramma della Passione è imminente.
Tutta la parete di sinistra di Santa Maria ha come fonte la Leggenda aurea del grande predicatore domenicano Iacopo da Varazze. Gli affreschi raccontano storie della Vergine, dall’Annunciazione all’Assunzione col corpo in cielo, opera di un ignoto e buon pittore trecentesco, assai espressivo, che tenne ben presenti gli affreschi di Giotto. Questo intervento certamente si rese necessario dopo che i dipinti di Gentile da Rocca erano andati distrutti in questa parte per uno dei due forti terremoti trecenteschi già ricordati.
Nella chiesa si poteva ammirare prima del 1979 un bellissimo tabernacolo poligonale con ante dipinte recanti storie della Madonna che racchiudeva una magnifica statua lignea della medesima Madonna con il Bambino, attribuite, pitture e scultura, al Maestro di Fossa. Le ante purtroppo sono state rubate e certamente i vari riquadri segati perché almeno uno è riemerso dal mercato antiquario ed è ora conservato al Museo Nazionale d’Abruzzo dell’Aquila dove per prudenza è stata traslocata da Santa Maria ad Cryptas anche la scultura lignea. Le immagini a colori prima del furto e uno studio approfondito di Cristina Pasqualetti permettono di ammirare virtualmente questo capolavoro.
La chiesa ha continuato a vivere nei secoli e il libro dà conto delle pitture e delle sculture successive al periodo medievale che rispondono però ad interventi di committenti singoli per opere non unitariamente mirate. Non resta, per ammirare anche quello di cui non si è potuto dare conto, che andare a visitare questa bellissima chiesa, preparandosi con la lettura del nostro libro!