La world history, anche detta global history, non ha avuto sinora molto successo in Italia: in effetti, si tratta di un ambito di ricerca praticato soprattutto nel mondo anglosassone ed estraneo alla nostra tradizione, sebbene lavori di storici del passato come Carlo Maria Cipolla o Fernand Braudel potrebbero a ragione esser considerati antesignani di questo genere. Da dove provenga l’interesse per la storia globale è evidente: viviamo oggi in un mondo interamente globalizzato, in cui oggetti e persone si spoostano da un paese all’altro e spesso da un continente all’altro. Poiché quando Benedetto Croce esprimeva la sua celebre massima «la storia è sempre contemporanea» intendeva dire che le domande che noi poniamo al passato derivano dai nostri interessi nel presente, ecco allora come anche nelle epoche che ci hanno preceduto si vadano a cercare gli elementi di interdipendenza tra fenomeni e popoli, i rapporti tra paesi e culture piuttosto che non gli sviluppi lineari.
La sfida non è da poco, perché è difficile essere specialisti della globalità: anzi, una espressione del genere pare quasi una contraddizione in termini. Soprattutto lì dove la ricerca e l’insegnamento (almeno quello universitario) sono costruiti secondo periodizzazioni e percorsi tradizionali (il mondo classico, il medioevo, la modernità ecc.), una world history appare difficile da praticare. Ecco perché a occuparsene molto spesso capita di trovare brillanti divulgatori: è il caso di Charles C. Mann, che in 1493. Pomodori, tabacco e batteri. Come Colombo ha creato il mondo in cui viviamo (Mondadori, 678 pp., 30 euro) traccia un quadro globale del modo in cui gli scambi di uomini, donne, merci e malattie fra i continenti, possibile dopo l’apertura delle rotte atlantiche – e poi di quelle pacifiche – hanno creato un mondo nuovo: la prima età della globalizzazione sarebbe arrivata insomma a partire dal XVI secolo.

Di per sé, quella di Mann non è un’idea nuova perché altri storici prima di lui (inclusi i due che abbiamo citato) l’avevano proposta ed esplorata. Il pregio del libro è tornare a proporla alla luce delle nuove ipotesi, teorie, scoperte che le scienze umane e quelle biologiche hanno conseguito negli ultimi decenni. In più, 1493 e la produzione world history in generale, arrivano anche all’indomani di un’ubriacatura per la storia locale e la microstoria ormai un po’ passate di moda, ma comunque molto presenti in una parte dell’insegnamento, almeno in Europa; nonché in Italia soprattutto a livello scolastico, ossia proprio lì dove, vista la composizione etnica della popolazione scolastica attuale, un’ottica globale risulterebbe maggiormente spendibile.

L’epoca delle esplorazioni e la scoperta dell’America misero l’Europa in contatto con mondi sino ad allora conosciuti solo sporadicamente se non del tutto ignoti, che nel corso dell’età moderna sarebbero stati aggrediti, spesso assoggettati, talvolta sterminati dagli europei. Saranno dunque le potenze d’Europa a creare per la prima volta una rete interconnettiva che si stende sull’intero pianeta, questo processo di globalizzazione avant la lettre. Con questo straordinario allargamento delle dimensioni del mondo conosciuto dagli europei è tradizione – non certo univocamente accettata, tuttavia ancor solida – aprire alla storia il periodo detto «età moderna». Ma perché sono stati gli occidentali i promotori di tale processo?

La chiave interpretativa è eminentemente culturale e va ricercata nel contesto del rinnovamento umanistico che non riguardava solo le arti, come spesso si tende a pensare. Il pensiero umanistico è ricco invece di realizzazioni pratiche: raramente lo studioso era un puro intellettuale da tavolino, più sovente era anche artigiano, e nel suo lavoro arte e tecnologia s’incontravano. Inoltre la sua opera si svolgeva sempre alla corte di un signore, di un principe, di un sovrano. Questo legame fra cultura umanistica e esercizio del potere spiega come, nel corso del Quattrocento, si fosse affermata una serie di invenzioni e di scoperte che hanno letteralmente cambiato la faccia di quello che fino ad allora era stato il mondo conosciuto. Si dice di solito che il Quattrocento è stato il secolo della polvere da sparo, della stampa e delle scoperte geografiche, e certo si ha ragione affermando questo, a patto d’intendersi bene: nessuna di queste cose è figlia esclusiva del XV secolo.

La polvere da sparo era conosciuta da molti secoli in Cina, dove però non serviva a scopi militari; in Europa era usata fino dal Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionare l’arma da fuoco fino a farne uno strumento d’assedio tanto efficace da obbligare l’architettura militare a inventare tutta una serie di nuovi accorgimenti protettivi. Allo stesso modo, la cosmografia – rinnovata dagli apporti antichi riscoperti dagli umanisti – s’impose nel secolo XV non come scienza speculativa, bensì come strumento per l’ampliamento della terra e per l’arricchimento dei sovrani che ebbero l’audacia e la fortuna di promuovere i viaggi oceanici e le scoperte. L’interesse geografico e cosmografico, nel XV secolo, era del resto parte del rinnovamento culturale di quel tempo.

Rispetto a tale quadro, Mann sottolinea alcuni aspetti per così dire di «involontarietà» del processo di conquista del mondo e delle sue conseguenze: lo studio della diffusione dei batteri e delle malattie è una delle sezioni più interessanti del suo lavoro e fra quelle che maggiormente possono servirsi di nuovi risultati nella ricerca. Allo stesso tempo tale casualità non compromette il paradigma originario, quello affermato da Cipolla nel suo Vele e cannoni: è con la precisa volontà di servirsi della tecnologia a fini bellici e nell’avvertire tale supremazia tecnologica, da sola, come giustificazione a conquistare il mondo che la supremazia europea ha avuto inizio.
Senza tale bellicosità, per esempio, la Cina che all’epoca era un impero molto più ricco (e lo stesso Mann a ricordarlo) rispetto all’Europa non sarebbe mai stata costretta a entrare nel gioco della globalizzazione. È bene ricordarlo, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui si è molto propensi a lamentare lo strapotere delle potenze emergenti extraeuropee, ma si tende a dimenticare volentieri dove, come e perché questo gioco è cominciato, e chi per primo ne ha scritto le regole.