Non è terminata con l’enorme sciopero nazionale di giovedì scorso la mobilitazione del popolo colombiano contro il governo di Iván Duque.

E insieme alle proteste – proseguite anche il giorno successivo con scontri e blocchi stradali, e con un secondo e altrettanto sonoro cacerolazo – è continuata, inasprendosi, anche la repressione. Per «garantire la sicurezza di tutti gli abitanti della capitale», minacciata dalla persistenza di scontri e saccheggi, il sindaco di Bogotà Enrique Penalosa ha perfino disposto il coprifuoco dalle nove di sera, annunciando il dispiegamento di 4mila soldati e di diversi corpi della polizia, i quali avrebbero eseguito già 230 arresti per gli atti vandalismo registrati in vari punti del paese.

Atti che, secondo la denuncia presentata alla Procura generale dal presidente della Commissione per la pace del Senato Roy Barreras, sarebbero stati tuttavia indotti «per delegittimare la protesta pacifica»: «Ci sono video, ci sono denunce. Esiste forse una strategia dello stato diretta a seminare il panico e a rispondere con la repressione alle richieste di cambiamento?», si è interrogato il senatore.

Davvero nulla di strano, se così fosse, per un paese in cui l’esercito è arrivato, negli anni del conflitto, ad assassinare civili innocenti facendoli passare per guerriglieri delle Farc uccisi in combattimento, in maniera da esaltare l’efficienza repressiva delle forze armate (e intascare i relativi premi). Intanto, almeno tre poliziotti sono stati uccisi e sette sono rimasti feriti, in un attacco con esplosivi avvenuto venerdì notte contro una stazione di polizia a Santander de Quilichao, nel Cauca. Un attentato che tuttavia «non è in relazione con le proteste antigovernative», come ha assicurato Jaime Asprilla, assessore all’Ordine pubblico del municipio.