Il primo messaggio del neoeletto presidente colombiano Iván Duque è stato a favore dell’unità e della riconciliazione nazionale. Un messaggio atteso dopo elezioni presidenziali che hanno visto contrapporsi due Colombie: una di destra, rappresentata appunto da Duque, percepito come il portavoce dell’ex presidente di estrema destra Álvaro Uribe – ironicamente si diceva che la sua maglietta elettorale portava scritto «el que dijo Uribe» – e una, di centro sinistra, che che guardava all’ex guerrigliero Gustavo Petro.

Duque ha vinto con più di dieci milioni di voti. Confermando una forte egemonia (politica e sociale) della destra in Colombia. Sono perciò giustificati i timori – espressi persino da esponenti del Congresso Usa – che possa voler modificare la Costituzione e riformare il periodo del mandato presidenziale, che indebolisca il potere giudiziale e che cambi aspetti importanti degli accordi di pace con la guerriglia delle Farc siglati due anni fa (e di fatto congeli le trattative con l’altra guerriglia, l’Eln).

Insomma si teme che il nuovo presidente faccia quello che Uribe gli chiede di fare.

Assieme a una decisa svolta a destra vi è anche il pericolo che Duque adotti anche un populismo economico appreso – dal Partito repubblicano – durante il suo soggiorno negli Usa: la cosidetta «teoria del derrame». Ovvero che buoni risultati in macroeconomia, favorendo i più ricchi, causeranno per un effetto di sgocciolamento verso il basso (derrame) anche un miglioramento di vita dei settori più poveri. La teoria cara ai Chicago Boys si è dimostrata un fallimento in America latina, ma anche – come Joseph Stiglitz afferma (Il prezzo della della disuguaglianza) – negli Usa.

Questa realtà non ha impedito a Duque di basare la sua campagna elettorale sulla necessità di riformare uno Stato inflazionato e di ridurre le tasse troppo alte imposte al settore privato. Insomma una ricetta che negli Usa si continua a ripetere con gli esiti noti. Ma che è ancor più pericolosa in un paese come la Colombia la cui Costituzione garantisce il diritto alla salute e all’educazione pubblica e che già favorisce l’uno per cento della popolazione che ha maggiore reddito. Secondo le ultime statistiche disponibili – riferite al 2010 – i più ricchi hanno versato allo Stato circa l’11,5% del reddito. Un tasso assai basso rispetto agli standard dei paesi membri dell’Ocse.

La Colombia già soffre uno dei maggiori indici di ineguaglianza del mondo e la sua economia dipende dagli interessi di oligopoli locali che controllano il settore finanziario e da altre industrie chiave. Le quali forniscono informazioni del tutto taroccate sui propri affari senza che vi siano efficienti controlli fiscali.

Si può dare a Duque il beneficio del dubbio quando parla di necessità di una riconciliazione nazionale. O si può sperare che gli alleati in Parlamento, come i liberali, possano cercare di fare da contrappeso alle richieste della destra uribista. Ma gli slogan del populismo economico non fanno certo ben sperare.