Non è solo una scelta tra il candidato di estrema destra Iván Duque e quello progressista Gustavo Petro quella che si pone all’elettorato colombiano al ballottaggio presidenziale di oggi. L’alternativa sul tappeto è, più in generale, quella tra la guerra e la pace, quasi una riproposizione del referendum del 2 ottobre 2016 sull’accordo con le Farc (bocciato a sorpresa di strettissima misura).

Dietro a Duque, nessuno ne dubita, c’è infatti Álvaro Uribe, acerrimo nemico del processo di pace con la ex guerriglia e notoriamente legato al paramilitarismo e al narcotraffico (come confermato anche da cablogrammi del Dipartimento di Stato Usa da poco declassificati).

Al contrario, un’eventuale vittoria di Gustavo Petro, primo candidato progressista a giocarsi la presidenza, darebbe al paese, pur tra ostacoli innumerevoli, una possibilità reale di cambiamento. Malgrado, è ovvio, la pesante ipoteca costituita dall’ingresso della Colombia nella Nato decisa dal presidente Santos a poche ore dal primo turno delle presidenziali, ultimo regalo del suo governo al paese e a tutta l’America latina.
I sondaggi, però, non promettono nulla di buono, dando Duque in netto vantaggio su Petro, con un distacco che, secondo i diversi rilevamenti, varia dai 5,5 fino ai 16,5 punti percentuali. Troppi, sembra, per sperare una rimonta.

Eppure, sulla carta, sommando da una parte i voti ottenuti al primo turno dai candidati democratici e, dall’altra, quelli incassati della destra, l’opzione per la pace dovrebbe imporsi con il 50,87% contro il 46,42% di quella contraria. Ma benché Petro, il candidato di Colombia Humana, abbia ottenuto l’appoggio del Polo Democrático Alternativo e dei dirigenti più in vista dell’Alianza Verde, come Antanas Mockus, la sconcertante decisione di votare scheda bianca annunciata da Humberto De la Calle – capo negoziatore per il governo dell’accordo con le Farc – e soprattutto da Sergio Fajardo – giusto terzo con il 23,7% dei voti – avrà prevedibilmente l’effetto di spianare la strada della presidenza a Iván Duque. Il quale, come immancabilmente accade, può invece contare sul sostegno di tutto lo schieramento di destra, compreso – malgrado i forti mugugni di parte della base – il Partido Liberal.

Ancora una volta, dunque, rischia di rivelarsi vincente la tattica già impiegata da Uribe in occasione del referendum del 2016: quella di concentrare tutta la campagna elettorale in alcuni ben assestati attacchi agli avversari, evocando gli spettri del terrorismo, del castrochavismo, della Colombizuela. Attacchi da cui Petro ha cercato di difendersi come ha potuto, anche prendendo duramente le distanze dal governo Maduro, con il risultato di attirarsi non poche critiche da sinistra.

Ma, soprattutto, tentando di tranquilizzare l’elettorato con la presentazione di 12 impegni fondamentali scritti nientedimeno che su lastre di marmo, tra cui la rinuncia alla convocazione di un’Assemblea costituente, evidentemente dal sapore troppo chavista, la rassicurante promessa a non espropriare le imprese private e a garantire la democrazia pluralista, l’impegno a gestire le risorse pubbliche «come risorse sacre», a rispettare l’accordo di pace, a promuovere l’educazione pubblica gratuita e di qualità, a realizzare una transizione alle energie rinnovabili, a garantire l’uguaglianza di genere.

L’annuncio dei nomi delle ministre e delle alte dirigenti che farebbero eventualmente parte del suo governo – dieci donne tra le più competenti e preparate del Paese – lascerebbe in effetti ben sperare. Tra di esse, non per niente, c’è anche la leader africolombiana Francia Márquez, vincitrice del Goldman Environment Prize 2018, il Premio Nobel per l’Ambiente.