La sua discesa in campo era nell’aria, ma non per questo ha fatto meno rumore: a 20 anni dalla sua prima candidatura alla presidenza della Colombia – bruscamente interrotta dal suo sequestro ad opera delle Farc nel 2002 -, Ingrid Betancourt ci riprova. «Oggi sono qui per finire quello che ho iniziato», ha spiegato la neocandidata alle presidenziali del 29 maggio in una conferenza stampa tenuta in un hotel della capitale, comunicando la decisione di prendere parte alle nutrite primarie della Coalición Centro Esperanza, insieme a ben altri sette precandidati.

IN MANO AI GUERRIGLIERI per sei anni, in condizioni durissime, fino al luglio del 2008, la leader e fondatrice del Partido Verde Oxígeno, rientrata da Parigi nel paese appena un anno fa, ha fatto della sua drammatica vicenda personale una metafora dell’intera società colombiana: «Voglio parlare ai 51 milioni di colombiani sequestrati da decenni da un sistema di corruzione e violenza. La mia storia è la storia di tutti loro, perché, mentre io e i miei compagni di prigionia eravamo incatenati, le famiglie colombiane erano ostaggio della povertà, dell’insicurezza, della violenza e dell’ingiustizia».

MA LA SUA FAMA internazionale come simbolo delle vittime del conflitto armato colombiano potrebbe non bastarle nella sua corsa verso la presidenza. Se anche riuscirà a superare lo scoglio delle primarie del 13 marzo, dovrà infatti affrontare un avversario assai temibile: il candidato del Pacto Histórico Gustavo Petro, in testa in tutti i sondaggi e ulteriormente favorito dall’assenza di avversari all’interno della sua coalizione.

E proprio nei suoi confronti, dopo averlo lei stessa appoggiato al ballottaggio contro Duque nel 2018, Betancourt non risparmia oggi le critiche, definendolo il «candidato della sinistra radicalizzata», a cui oppone la sua visione lontana da ogni estremismo. La «visione di una donna» che, assicura, può aiutare il paese a uscire dalla cultura dell’odio e della corruzione», a diventare «il paradiso che ci hanno tolto». Un paradiso in cui ci sarebbe posto per tutti, anche per il guerrafondaio per eccellenza, Álvaro Uribe, a cui ammette di «dovere molto», essendo stata liberata proprio sotto il suo governo.

MA, MENTRE SI DISCUTE del futuro della Colombia, il presente è ancora coperto di sangue: già sette i massacri registrati dal primo gennaio. Grande emozione ha suscitato in particolare la morte di una guardia indigena di appena 14 anni, Breiner David Cucuñame, caduto venerdì a Las Delicias, nel Cauca, durante un attacco a un gruppo di guardie indigene Nasa, insieme al dirigente Guillermo Chicana (con loro salgono a 314 i leader indigeni assassinati dal 2019).
Secondo il Consejo Regional Indígena del Cauca, il ragazzo, descritto come «custode della Madre Terra e guardiano del territorio», sarebbe stato ucciso mentre, insieme a suo padre, lanciava l’allarme sulla presenza nei pressi della comunità di gruppi armati riconducibili al Comando Coordinador de Occidente, di cui fanno parte tre gruppi dissidenti delle Farc: «Sparavano a qualunque cosa si muovesse, senza curarsi della possibile presenza di bambini», ha denunciato una testimone.

ED È PROPRIO questo comando guerrigliero a dare vita, nel dipartimento di Arauca, alla frontiera con il Venezuela, a duri scontri con l’Eln (Ejército de Liberación Nacional) durante i quali sono caduti, dall’inizio dell’anno, oltre 30 combattenti. Un conflitto che segue la rottura dell’accordo di convivenza sottoscritto dalle due guerriglie nel 2011 e dietro cui si nasconde la disputa per il controllo delle risorse del territorio.
Ma se il governo di Duque ha annunciato l’invio nella regione di nuovi battaglioni dell’esercito, non sarà la militarizzazione a risolvere la situazione di violenza, la cui genesi va ricercata, secondo le organizzazioni per la difesa dei diritti umani, nell’abbandono da parte dello stato del settore rurale, nella povertà e nel mancato rispetto degli Accordi di pace.